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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Avanzarono prudenti, fino a quando raggiunsero un sentiero aperto, e allora cominciarono a correre. Un calesse dalle altissime ruote passò veloce accanto a loro, superandoli, con il cavallo veloce e trafelato, ed Esaù ansò:

«Vieni, vieni!»

Rise, e anche Len rise, correndo. Pochi minuti dopo uscirono dal terreno della fiera, e si ritrovarono sulla strada principale, con i piedi che affondavano nella polvere alta di tre settimane senza pioggia. La polvere era sospesa nell’aria, agitata dal passaggio di molte ruote, sollevata dal vento dei carri e agitata di nuovo, prima ancora che avesse potuto posarsi. Delle figure di cavalli apparvero torreggianti nel buio, enormi e spettrali, scuotendo schiuma dai morsi. Tiravano un carro con il tendone aperto, e l’uomo che sedeva a cassetta aveva l’aspetto di un fabbro, con braccia enormi e muscolose e una corta barba bionda. Al suo fianco sedeva una donna robusta, dalle guance rosse, che portava uno straccio intorno alla testa, al posto di una cuffia, e aveva le gonne che si agitavano nel vento. Da sotto il tendone appariva una fila di piccole teste gialle come il grano. Esaù corse più forte, affiancandosi al carro, gridando, seguito da vicino da Len. L’uomo tirò le redini, arrestando i cavalli, e li guardò. Anche la donna li guardò, e poi entrambi scoppiarono in una risata.

«Guardali!» esclamò l’uomo. «Dei piccoli cappelli piatti. Dove andate senza la mamma, piccoli cappelli piatti?»

«Andiamo alla predica,» disse Esaù, furibondo per i «cappelli piatti», e più furibondo ancora per i «piccoli», ma non abbastanza furibondo per lasciare perdere l’occasione di ottenere un passaggio. «Possiamo venire con voi?»

«Perché no?» disse l’uomo, e rise di nuovo. Disse qualcosa sui Gentili e sui Samaritani che Len non riuscì a comprendere bene, e qualcos’altro sull’ascoltare una Parola, e poi disse loro di salire, perché erano già in ritardo. I cavalli non si erano completamente fermati, anche se la loro andatura era stata rallentata, e Len ed Esaù correvano tra gli sterpi ai lati della strada, senza farsi distanziare. Si arrampicarono agilmente sul retro del carro, e si gettarono, ansanti, sulla paglia che copriva il fondo, e l’uomo incitò a gran voce i cavalli, che si lanciarono di nuovo al galoppo, facendo sobbalzare e ondeggiare il carro, mentre la polvere penetrava dalle fessure del fondo, bianca e insistente. La paglia era piena di polvere. C’era un grosso cane accovacciato su di essa, e c’erano sette bambini, e tutti fissavano Esaù e Len con occhi grandi, rotondi e ostili. I due ragazzi sostennero lo sguardo, e poi il più grande dei bambini puntò il braccio su di loro, e disse:

«Guardate che buffi cappelli.»

Tutti risero, a queste parole.

«Cosa te ne importa?» rispose Esaù.

«Me ne importa perché questo è il mio carro, e voi ci siete sopra, e se non vi piace la compagnia potete scendere».

Poi continuarono a beffarsi dei loro vestiti, e Len ribollì di collera, pensando che loro non avevano alcun diritto di parlare. Erano scalzi, tutti e sette, e non avevano cappello in testa, anche se, a onor del vero, apparivano tutti sani e robusti, e benestanti, e soprattutto puliti. Malgrado tutto non rispose alle provocazioni, e anche Esaù rimase zitto. Tre o quattro miglia erano un percorso molto lungo, troppo lungo se lo si doveva percorrere a piedi, di notte.

Il cane era molto amichevole, invece. Venne a leccare i loro volti con la lunga lingua ruvida, e si accovacciò imparzialmente sull’uno e sull’altro, coprendoli di attenzione per tutta la durata del viaggio. E Len si domandò se la donna seduta a cassetta sarebbe scesa sul terreno della predica, rotolandosi a terra, e se l’uomo si sarebbe rotolato a terra con lei. Pensò che sarebbero apparsi molto stupidi, in questo caso, e ridacchiò, e d’un tratto scoprì di non essere più in collera contro i sette bambini gialli che continuavano a criticare pesantemente i loro vestiti e il loro aspetto.

Finalmente il carro si fermò tra molti altri, disposti in un campo aperto, molto vasto, che scendeva con un dolce pendio verso un piccolo fiume, largo solo sei o sette metri, ora che si era nel pieno della stagione asciutta, e poco profondo, tra gli alti argini. Len pensò che doveva esserci molta gente, almeno quanta ce ne era stata alla fiera, solo che tutti erano ammassati, vicinissimi, disposti in una specie di approssimativo circolo, con molta gente seduta al centro. Un carro piatto, con i cavalli staccati, venne spinto vicino all’argine del fiume. Tutti erano voltati verso il carro, e un uomo era in piedi sopra di esso, illuminato da un grande falò. Era un uomo giovane, alto, col torace largo. La barba nera gli scendeva fin quasi alla cintola, lucida come le penne di un corvo in primavera, ed egli la scuoteva muovendosi, agitando la testa e gridando. Aveva la voce alta e penetrante, e non giungeva in un flusso costante di parole, ma a brevi frammenti che parevano lacerare l’aria, improvvisi e penetranti come lame di pugnale, arrivando chiari fino alle ultime file, prima che quello successivo venisse scagliato contro coloro che ascoltavano. Ci volle un minuto buono, prima che Len capisse che l’uomo stava predicando. Era abituato a prediche del tutto diverse, nelle riunioni del sabato, quando papà, o lo zio David, o chiunque altro lo volesse, potevano alzarsi e parlare con Dio, o di Dio. Essi lo facevano sempre con calma, con voce posata e tenendo le mani giunte.

Era stato a osservare dall’alto del carro. In quel momento, prima ancora che le ruote si fermassero, Esaù gli diede una gomitata, e disse:

«Vieni!»

Saltò giù, oltre l’asse posteriore del carro. Len lo seguì. L’uomo gridò loro qualcosa a proposito della Parola, e tutti e sette i bambini fecero smorfie e boccacce. Len disse, educatamente:

«Grazie per il passaggio».

Poi si mise a correre dietro a Esaù.

Da quel punto, il predicatore sembrava piccolo e lontano, e Len non poteva capire molto di ciò che diceva. Esaù bisbigliò:

«Penso che sia meglio avvicinarci… da questa parte, ma non fare rumore». Len annuì. I due ragazzi scivolarono tra i carri, e notarono che c’erano altre persone che, apparentemente, preferivano rimanere nascoste. Si mantenevano ai margini della folla, fra i carri, e Len poteva intravedere soltanto le figure oscure i cui contorni erano disegnati dal riflesso del fuoco. Alcuni si erano tolti il cappello, ma il taglio degli abiti e dei capelli denunciavano la loro origine in maniera altrettanto inequivocabile. Appartenevano al popolo di Len. Sapeva quello che provavano. Lui stesso provava una certa vergogna, al pensiero di essere visto là in mezzo.

Mentre lui ed Esaù avanzavano faticosamente verso il fiume, la voce del predicatore si faceva più forte. C’era qualcosa di stridente, in essa, qualcosa che muoveva il sangue e lo spirito, come il grido di uno stallone furioso. Le parole giunsero più distinte:

«…divennero idolatri, seguendo le vie di strani dèi. Voi lo sapete bene, amici. I vostri stessi genitori ve l’hanno detto, le vostre nonne e i vostri vecchi nonni ve l’hanno confessato, come i cuori della gente erano pieni di malvagità e di bestemmia, e di bramosia e lussuria…».

Len sentì la pelle formicolare per l’eccitazione. Seguì Esaù, che s’insinuava tra una confusione di ruote e di zampe di cavalli, trattenendo il respiro. E finalmente raggiunsero un punto dal quale potevano vedere, al riparo di uno spazio d’ombra tra le ruote di un carro, senza essere notati, mentre il predicatore era a pochissimi metri da loro.

«Perché essi peccarono di lussuria, fratelli miei! Essi bramavano tutto ciò che era strano, e nuovo, e innaturale. E Satana vide che così era, e accecò i loro occhi, gli occhi celestiali dell’anima, facendoli diventare dei bambini sciocchi, che gridavano di gioia cercando il lusso e i beni materiali, e tutti i piaceri che inaridivano l’anima. Ed essi dimenticarono Dio».

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