«Non sembrano molto abituati agli stranieri».
«No, non agli stranieri che vengono a vivere tra loro. Comunque, è molto tempo che hanno sentito parlare di voi. Siete diventati dei personaggi, e la gente è curiosa».
«I ragazzi di Hostetter,» disse Len, e sogghignò, per la prima volta da due giorni.
Anche Hostetter sogghignò. Li condusse per un vicolo buio, fiancheggiato da case sparse, fino ad arrivare a una casa abbastanza grande, con un portico lungo tutta la facciata. La casa si trovava su di un pendio, più alta delle altre, di fronte alla miniera. Le assi che la coprivano erano vecchie e segnate dal tempo, e il portico era stato rinforzato più volte con tronchi d’albero.
«Questo alloggio era stato costruito per il sopraintendente della miniera,» spiegò Hostetter. «Ora ci vive Sherman».
«Sherman è il capo?» domandò Esaù.
«Di molte cose, sì. Ci sono anche Gutierrez ed Erdmann. Anche loro hanno voce in capitolo, per certe altre cose».
«Ma Sherman ci ha permesso di venire,» disse Len.
«Ha dovuto parlarne agli altri. Hanno dovuto mettersi d’accordo».
C’erano delle lampade accese nella casa. Salirono i gradini, e si trovarono sul portico, e la porta si aprì prima che Hostetter avesse potuto bussare. Una donna alta e sottile, con i capelli grigi e un volto simpatico, apparve sulla soglia, sorridendo e tendendo le braccia a Hostetter, che disse:
«Ciao, Mary».
E lei disse:
«Ed! Bentornato a casa,» e lo baciò sulle guance.
«Be’,» disse Hostetter. «È passato molto tempo».
«Undici, no, no, dodici anni,» disse Mary. «È bello riaverti tra noi».
Poi guardò Len ed Esaù.
«Questa è Mary Sherman,» disse Hostetter, come se si sentisse in dovere di offrire una spiegazione. «Una vecchia amica. Giocava con mia sorella, quando eravamo tutti più giovani… mia sorella è morta, ormai. Mary, questi sono i ragazzi».
Li presentò. Mary Sherman sorrise, con aria un po’ malinconica, come se avesse avuto molte cose da dire. Ma si limitò a dire:
«Sì, li stanno aspettando. Entrate».
Entrarono nel soggiorno. Il pavimento era nudo e pulito, le tavole di pino consumate fino a mostrare il disegno del legno. I mobili erano vecchi, e semplici, di un genere che Len conosceva già, e che veniva prodotto prima della Distruzione. C’era una grande tavola, con una lampada al centro, e tre uomini vi erano seduti attorno. Due avevano circa l’età di Hostetter, e uno era più giovane, sulla quarantina o poco più. Uno dei due anziani, un uomo grande e grosso e massiccio, col mento prefettamente rasato e gli occhi chiari, si alzò e venne a stringere la mano a Hostetter. Poi Hostetter strinse la mano agli altri due, e ci furono dei convenevoli, di persone che non si vedevano da molto tempo. Len si guardò intorno, sentendosi a disagio, e si accorse che Mary Sherman era già scomparsa.
«Avvicinatevi,» disse l’uomo alto e grosso, e Len capì che stava parlando a lui e a Esaù. Avanzò nel circolo di luce, vicino alla tavola, ed Esaù si fece avanti con lui. L’uomo massiccio li studiò attentamente. I suoi occhi erano del colore del cielo invernale poco prima di una nevicata, acuti e penetranti. L’uomo più giovane sedeva accanto a lui, con i gomiti appoggiati sulla tavola. Aveva i capelli rossicci, e aveva gli occhiali, e aveva il viso stanco, non una stanchezza del momento, ma una perenne necessità di riposo mai soddisfatta. Dietro di lui, nell’ombra tra la tavola e la grossa stufa di ferro, c’era il terzo uomo, piccolo, scuro e scontroso, con una barbetta a punta, molto curata, e bianca come biancheria di bucato. Len ricambiò il loro sguardo, senza sapere quello che doveva provare… se essere in collera, o intimorito, o rispettoso. Cominciava a sudare, per il nervosismo di quell’attesa.
L’uomo grosso disse, improvvisamente:
«Io sono Sherman. Questo è il signor Erdmann,» l’uomo più giovane fece un breve cenno del capo, «E questo è il signor Gutierrez». L’ometto acido borbottò qualcosa. «So che entrambi siete Colter. Ma quale dei due è Len, e quale Esaù?»
Si presentarono. Hostetter si era ritirato nell’ombra, e Len lo udì riempire la pipa.
Sherman disse a Esaù:
«Allora voi siete quello con la… ehm… con la madre in attesa».
Esaù cercò di spiegare la cosa, e Sherman lo interruppe.
«So tutto, e ho già rimproverato Hostetter per abuso di autorità, così possiamo lasciare le cose come sono, e non parlarne più, tranne che per un particolare. Voglio che la portiate qui domattina, alle dieci precise. Ci sarà qui il ministro. Nessuno deve saperne niente. Chiaro?»
«Sì, signore,» disse Esaù. Sherman non era minaccioso né sgradevole. Era, semplicemente, un uomo avvezzo a dare degli ordini, e la risposta fu automatica.
La sua attenzione si spostò da Esaù a Len, e domandò:
«Perché volevate venire qui?»
Len chinò il capo, e non rispose.
«Avanti,» disse Hostetter. «Diglielo».
«E come posso farlo?» esclamò Len. «Va bene, tenterò. Noi… noi pensavamo di trovare un posto nel quale la gente fosse diversa, nel quale fosse possibile pensare e parlare dei propri pensieri e delle cose del mondo senza mettersi nei guai. Dove ci fossero delle macchine e… oh, tutte le cose che esistevano una volta».
Sherman sorrise. Non era più l’uomo massiccio dagli occhi freddi, abituato a dare ordini, ma un essere umano che aveva vissuto a lungo e aveva imparato a non lottare contro la vita. Come Hostetter. Come papà. Len lo riconobbe da quel sorriso, e allora comprese, d’un tratto, di non trovarsi completamente tra stranieri.
«Avevate pensato,» disse Sherman, «Che noi dovevamo avere una città, come quelle antiche, con tutte le vecchie cose in essa».
«Penso di sì,» disse Len, e non provava più collera, ora, ma solo rimpianto.
«No,» disse Sherman. «Tutto ciò che abbiamo è la prima parte di quello che desideravate».
Erdmann disse:
«E siamo alla ricerca della seconda».
«Oh, sì,» disse Gutierrez. La sua voce era sottile e scontrosa come lui. «Noi abbiamo una causa. Voi capirete… voi giovani avete a vostra volta una causa. Vuoi che ne parli, Harry?»
«Più tardi,» disse Sherman. Si chinò in avanti, e parlò a Len e a Esaù, e i suoi occhi erano di nuovo duri, e freddi. «Dovete ringraziare Hostetter…».
«Non del tutto,» intervenne Hostetter. «Anche tu avevi le tue ragioni».
«Un uomo può sempre trovare una ragione per giustificarsi,» disse Sherman, freddamente. «D’accordo, comunque, ammetterò questo punto. Tuttavia, il merito va in gran parte a Hostetter. Se non fosse stato per lui, ora sareste morti entrambi, uccisi dalla folla in quel paese… come si chiamava?…».
«Refuge,» disse Len. «Sì, questo lo sappiamo».
«Non sto cercando dei ringraziamenti, cerco semplicemente di chiarire dei fatti. Vi abbiamo fatto un favore, e non voglio cercare di farvi capire quanto sia grande questo favore, perché non lo capirete fino a quando non sarete rimasti qui per un po’ di tempo. E allora non ci sarà bisogno che io vi dica niente. Nel frattempo, vi chiedo di ripagarci facendo quanto vi sarà detto, senza fare troppe domande».
Fece una pausa. Erdmann si schiarì la voce, nervosamente, nel silenzio, e Gutierrez borbottò:
«Diglielo subito, senza mitigare il colpo. Avanti».
Sherman si voltò.
«Hai bevuto, Julio?»
«No. Ma lo farò».
Sherman grugnì.
«Be’, comunque quello che lui intende dire è questo: voi non lascerete più Fall Creek. Non fate niente che possa somigliare a una fuga. Abbiamo qualcosa di veramente grande in palio, qui, molto più di quanto possiate immaginare in questo momento, e non vogliamo correre rischi».
Concluse, semplicemente, con poche, brevi parole:
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