Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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«Volete dire che la gente può passare di là, semplicemente? E risalire questa strada? E valicare il passo, per giungere a Bartorstown?»

«Sì e no,» disse Hostetter. «Non hai mai sentito dire che il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo dove tutti possono vederlo?»

«Non capisco,» disse Len. «Non capisco.»

«Capirai.»

«Lo spero.» Gli occhi di Len erano di nuovo eccitati, splendevano di quella luce particolare che si associava sempre ai suoi sogni di Bartorstown, ed egli ripeté, sommessamente, «Domani,» come se avesse voluto accarezzare quella parola, come se l’avesse trovata di un sapore squisito.

«La strada è stata lunga e difficile, vero?» disse Hostetter. «Il tuo desiderio di venire doveva essere veramente grande, per averti fatto aspettare con tanta tenacia.» Tacque per un momento, osservando l’alto passo. Poi disse, «Non avere fretta, Len. Devi dare tempo al tempo. Non troverai tutto quello che hai sempre sognato, ma non avere fretta. Non prendere delle decisioni affrettate.»

Len si volse, e lo osservò, con espressione grave:

«È da quando siamo partiti che ho l’impressione che vogliate mettermi in guardia. Sì, proprio così. Volete mettermi in guardia, contro qualcosa che non so.»

«Cerco soltanto di dirti di… di non essere impaziente. Devi lasciare a te stesso la possibilità di adattarti.» Improvvisamente, quasi irato, esclamò, «Questa è una vita dura, ecco cosa cerco di dirti. È dura per tutti, anche a Bartorstown, e non promette di diventare più facile, e non ti devi aspettare uno spendente paradiso, una terra dei sogni, per poi restare con il cuore spezzato davanti a una delusione.»

Fissò duramente Len, un breve sguardo, e poi voltò il capo, respirando più forte e muovendo istintivamente le mani, come un uomo che sia turbato e non voglia mostrarlo. E Len disse allora, lentamente:

«Voi odiate questo posto.»

Non riusciva a crederlo. Era impossibile. Ma quando Hostetter disse:

«È ridicolo, come posso odiarlo?» in quel momento Len capì che era vero.

«Perché siete ritornato? Avreste potuto rimanere a Piper’s Run.»

«Anche tu avresti potuto farlo.»

«Ma è diverso.»

«No, invece! Tu hai una buona ragione, e anch’io.» Continuò a camminare per un minuto, a capo chino. Poi aggiunse, «Una sola cosa, Len. Non pensare mai di ritornare indietro.»

Si allontanò in fretta, e Len rimase indietro, e non poté vederlo da solo per tutto il resto del giorno e della notte. Ma si sentiva scosso, sconvolto, esattamente come sarebbe accaduto se, ai vecchi tempi, papà gli avesse detto improvvisamente che Dio non esisteva.

Non disse niente a Esaù. Continuò a guardare il passo, e a porsi mille domande, domande senza risposta. Nel tardo pomeriggio furono abbastanza in alto, tra le montagne, da avere una buona visione della strada già percorsa, oltre il contrafforte della scarpata rossa, là dove il deserto si stendeva solitario e ardente. Una terribile sensazione di dubbio era calata su di lui. La roccia gialla e rossa, i picchi aguzzi che si protendevano verso il cielo, la luce impietosa che non veniva mai addolcita da una nuvola, o ammorbidita da una pioggia, il deserto grigio e la povere e l’arsura, i vasti silenzi risonanti dove nulla viveva all’infuori del vento, tutte queste cose parevano schernirlo, con la loro indifferenza cupa, con la loro totale mancanza di speranza. Lui avrebbe voluto tornare indietro… no, non a casa, perché là avrebbe dovuto affrontare lo sguardò di papà, e neppure a Refuge. Semplicemente, in un posto dove ci fosse stata vita, e acqua, ed erba verde e lucida. In un posto dove le orribili rocce nude non si ergessero da ogni parte, come…

Come che cosa?

Come la verità, quando tutti i sogni le venivano strappati, come veli inutili?

Non era un pensiero allegro. Cercò di ignorarlo, ma ogni volta che vedeva Hostetter, ricominciava a tormentarlo. Hostetter sembrava cupo e pensieroso, e scomparve subito dopo la cena, consumata nell’improvvisato accampamento. Len andò a cercarlo, o meglio, cominciò a farlo, ma poi la ragione gli disse che non era il caso.

Erano accampati sulla cima del passo, dove si apriva un vasto spazio su entrambi i lati della strada. Il vento ululava, impetuoso, e il freddo era pungente. Poco prima che calasse l’oscurità, Len notò alcune lettere scolpite in una parete di roccia che sovrastava la strada. Erano in parte cancellate dal tempo, sgretolate dalle stagioni, ma erano grandi, e poté leggerle. Dicevano: FALL CREEK 13 MIGLIA.

Hostetter era scomparso, e così Len andò a cercare Wepplo, e gli chiese il significato di quelle lettere.

«Non sai leggere, ragazzo? Significano esattamente quello che dicono. Fall Creek, tredici miglia. Da qui a là.»

«Tredici miglia,» disse Len, «Da qui a Fall Creek. Va bene. Ma cos’è Fall Creek?»

«Un paese,» disse Wepplo.

«Dov’è?»

«Nel Canyon di Fall Creek.» Puntò il braccio. «Tredici miglia.»

Stava sogghignando. Len cominciava a detestare il senso dell’umorismo di quel vecchio.

«Cosa c’entra Fall Creek?» domandò. «Cosa c’entra con noi, voglio dire?»

«Be’,» disse Wepplo. «C’entra con noi, eccome! Se non c’entra Fall Creek, vorrei sapere cos’altro al mondo può entrarci! Non lo sapevi, ragazzo? È là che stiamo andando.»

Poi scoppiò in un’altra risata. Len batté frettolosamente in ritirata. Era furioso con Wepplo, furioso con Hostetter, furioso con Fall Creek. Era furioso col mondo intero. Si raggomitolò nella sua coperta, e giacque così, tremando e maledicendo ogni cosa. Era terribilmente stanco. Ma impiegò molto tempo per addormentarsi, e poi cominciò a sognare. Sognò che lui stava cercando Bartorstown. Sapeva di essere quasi arrivato, ma c’era nebbia, e faceva buio, e la strada continuava a cambiare direzione, sempre mutevole. Continuava a chiedere a un vecchio come avrebbe potuto arrivarci, ma il vecchio non aveva mai sentito parlare di Bartorstown, e rispondeva soltanto, monotono, che mancavano tredici miglia a Fall Creek.

Il giorno dopo valicarono il passo. Len e Hostetter erano cupi e scontrosi, e non parlavano molto. Prima di mezzogiorno iniziarono la discesa, e da quel momento fu molto più facile avanzare. I muli procedevano svelti, come se avessero saputo di essere quasi a casa. Gli uomini diventarono allegri ed eccitati. Esaù continuava ad avvicinarsi a Hostetter, ogni volta che riusciva a liberarsi da Amity, e domandava:

«Ci siamo?»

E Hostetter annuiva, e diceva:

«Quasi.»

Uscirono dal passo con il sole pomeridiano negli occhi. La strada si congiunse con un’altra, che correva lungo il fianco di una parete rocciosa, e in fondo alla parete c’era una gola ampia, con l’ombra bluastra della parete opposta che già ne riempiva gli anfratti. Hostetter puntò il braccio. La sua voce non era né eccitata, né felice, né triste.

«Eccola.»

Libro Terzo

19.

I carri discendevano l’ampia strada ripida, in un grande cigolio di freni, e i muli dovevano faticare per non essere spinti avanti. Len guardò oltre il ciglio della strada, nella gola piena d’ombre azzurrine. Guardò a lungo, senza parlare. Esaù si avvicinò, si mise al suo fianco, e guardarono entrambi, allora. E fu Esaù a voltarsi, pallidissimo, irato, e fu lui a gridare al signor Hostetter:

«Cosa credete che sia, uno scherzo? Credete che sia molto divertente, farci percorrere tutta questa strada, per…»

«Oh, piantala!» disse Hostetter. Sembrava stanchissimo, ora, all’improvviso, e impaziente, e parlava a Esaù come un uomo può parlare a un bambino noioso. Esaù fece silenzio. Hostetter diede un’occhiata a Len, di sbieco. Len non si era voltato, non aveva alzato la testa. Continuava a guardare nel fondo della gola.

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