Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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C’era un paese, laggiù. Visto da quell’altezza, e con quell’angolazione, era soprattutto una collezione di tetti raggruppati intorno alle rive di un fiume circondato da un poco di vegetazione. Erano dei comunissimi tetti di comunissime casette, come Len ne aveva viste per tutta la vita, e pensò che quelle case dovevano essere fatte di tronchi. Nella parte settentrionale della gola c’era una piccola diga dietro la quale era racchiuso un occhio di acqua azzurra. Accanto alla diga, su di un pendio, si vedevano due alti edifici dall’aspetto inconsueto. Accanto a questi, delle rotaie salivano e scendevano il pendio, conducendo da un buco nella roccia a un mucchio di materiale frantumato. C’erano dei piccoli carri, sulle rotaie. Ai piedi del pendio c’erano diversi altri edifici, bassi e piatti, questi, lievemente curvi, di un colore rugginoso. Dall’altro lato della diga, una breve strada portava a un altro buco nella roccia, ma non c’erano rotaie, né carri, collegati a questo buco, e le rocce erano cadute fino a bloccare la strada.

Len vide delle persone. Del fumo usciva da alcuni comignoli. Diversi muli tiravano una processione di minuscoli carri sulle rotaie, lungo il pendio, e dopo qualche minuto un rumore gli giunse, ancora lontano, remoto come quello di un’eco.

Si voltò, allora, e guardò Hostetter.

«Fall Creek,» disse Hostetter. «È una cittadina mineraria. Argento. Non della prima qualità, ma abbastanza buono, e in grande abbondanza. Continuiamo a estrarlo. Non c’è alcun segreto su Fall Creek, né mai c’è stato.» Fece un ampio gesto con la mano, scuro in volto. «Noi viviamo qui.»

Len disse, lentamente:

«Ma non è Bartorstown.»

«No. E il nome non è esatto, inoltre. Non si tratta, in realtà, di una vera città.»

Ancora più lentamente, Len disse:

«Papà mi disse che non esisteva alcun luogo simile. Mi disse che si trattava soltanto di un’idea, di un modo di pensare.»

«Tuo padre aveva torto. Esiste un luogo simile, ed è reale. Abbastanza reale, per far lavorare centinaia e centinaia di persone per tutta la vita.»

«Ma dove?» domandò Esaù, furioso. «Dove?»

«Hai aspettato tanto tempo. Puoi aspettare ancora qualche ora.»

Proseguirono la discesa, seguendo la tortuosa, ripida strada. L’ombra della montagna si allargò e riempì la gola, e cominciò ad avvolgere la parete orientale, salendo incontro a loro. Più in basso, sulla cresta di una vecchia cascata, alcuni pini raccoglievano la luce, e diventavano di un verde violento, troppo violento per i toni rossi e ocra della roccia.

Len disse:

«Fall Creek è un paese come tutti gli altri.»

«Non si può uscire completamente dal mondo,» disse Hostetter. «Non si può ora, e non si poteva neppure un tempo. Le case sono di tronchi e muratura perché era necessario costruirle con il materiale a disposizione. In origine, Fall Creek aveva l’elettricità, perché allora tutti l’avevano. Ora nessuno ce l’ha, e così non l’abbiamo. La cosa più importante è di avere un aspetto normale, uguale a quello di tutti gli altri paesi: e allora nessuno fa caso a te, nessuno ti nota e ti sospetta.»

«Ma un posto veramente segreto,» obiettò Len. «Un posto che nessuno conosceva.» Corrugò la fronte, cercando di comprendere l’enigma. «Un luogo del quale non osate far sapere nulla a nessuno, ora… eppure vivete così, apertamente, in un paese normale, servito da una strada agevole, e gli stranieri vanno e vengono liberamente.»

«Quando cominci a impedire alla gente di entrare, la gente penserà che tu abbia qualcosa da nascondere. Fall Creek è stata costruita per prima. Era stata costruita alla luce del sole. Le poche persone che vivevano in questa regione dimenticata da Dio si abituarono presto alla sua esistenza, si abituarono ai camion e agli aeroplani di tipo particolare che andavano e venivano. Era solamente una cittadina mineraria: Bartorstown venne costruita più tardi, dietro al paravento di Fall Creek, e nessuno l’ha mai sospettato.»

Len stava riflettendo furiosamente, cercando di capire. Dopo un breve silenzio, domandò:

«Nessuno ha sospettato nulla, neppure quando hanno cominciato ad arrivare tutti i nuovi abitanti?»

«Il mondo era pieno di profughi, e migliaia di essi si dirigevano proprio verso i posti piccoli e sperduti come questo, rifugiandosi tra le montagne, il più lontano possibile dalle città.»

Le ombre salivano, ora, ed essi entrarono nelle ombre, e venne il crepuscolo. Nel paese, si accendevano le prime lampade. Erano semplici lampade, come quelle che venivano accese a Piper’s Run, o a Refuge, o in migliaiai di altri paesi. La strada si allargava ed era pianeggiante, ormai. I muli erano stanchi, ma drizzarono le lunghe orecchie, e accelerarono l’andatura, sentendo la casa vicina, e i conducenti li richiamarono con aspre grida, e fecero schioccare le fruste come un crepitio di fucili nell’ombra del tramonto. C’era una vera e propria folla ad aspettarli, tra le piante, molte lanterne ardevano, le donne chiamavano i loro uomini che si trovavano sui carri, i bambini correvano intorno e gridavano lieti. Non avevano un aspetto diverso dalla gente che Len conosceva, dalla gente che aveva già visto in quell’angolo del paese. Indossavano gli stessi abiti, e i loro modi erano gli stessi.

Hostetter ripeté la sua frase, come se avesse conosciuto con esattezza i pensieri di Len:

«Bisogna vivere nel mondo. Non si può uscire da esso.»

Len disse, con pacata malinconia:

«Qui non c’è neppure quello che avevo a Piper’s Run. Niente fattorie, niente cibo, solo rocce e sassi intorno. Perché la gente rimane qui?»

«Hanno una buona ragione.»

«Deve essere molto, molto grande,» ribatté Len, in tono amaro, un tono che voleva indicare come ormai lui non credesse più a niente.

Hostetter non rispose.

I carri si fermarono. I conducenti scesero a terra, e tutti gli occupanti uscirono, ed Esaù aiutò a scendere Amity, pallida e smarrita, che si guardò intorno con aria diffidente. Bambini e ragazzi corsero a prendere i muli, e li condussero via, con i carri. C’erano tante, tantissime facce sconosciute, e dopo qualche tempo Len si accorse che tutti, indistintamente, stavano guardando lui ed Esaù. Si tennero vicini, allora, istintivamente, avvicinandosi a Hostetter. Hostetter si stava guardando intorno, chiamava a gran voce Wepplo, e il vecchio arrivo, sogghignando, tenendo il braccio attorno alla vita di una ragazza. La ragazza era piccola, con i capelli bruni e gli occhi vivi e guizzanti e neri, uguali a quelli di Wepplo, e un volto che aveva i lineamenti forse un po’ troppo pronunciati e decisi. Portava una camicetta col collo aperto e le maniche arrotolate, e una gonna che arrivava appena alla sommità degli stivali alti e morbidi. Guardò prima Amity, quindi Esaù, e poi Len, soffermandosi più a lungo su di lui, e non mostrò alcuna timidezza nell’incontrare il suo sguardo.

«Mia nipote,» disse Wepplo, come se fosse fatta di oro puro. «Joan. La signora Amity Colter, il signor Esaù Colter, e il signor Len Colter».

«Joan,» disse Hostetter. «Volete portare con voi la signora Colter, e farle compagnia per un poco?»

«Certo,» disse Joan, senza nessun entusiasmo. Amity si strinse a Esaù, e accennò a una protesta, ma Hostetter la zittì, piuttosto seccamente.

«Nessuno vi morderà; ed Esaù vi raggiungerà non appena gli sarà possibile».

Amity se ne andò, riluttante, appoggiandosi alla spalla della ragazza bruna. Sembrava una grossa matrona e non a causa del bambino, la cui nascita era ancora distante. La ragazza bruna lanciò uno sguardo malizioso e allegro a Len, e poi scomparve nella folla. Hostetter rivolse un cenno amichevole a Wepplo, e poi disse a Len e a Esaù:

«Va bene, andiamo».

Lo seguirono, e la gente li fissava e si scambiava commenti, non in maniera ostile, ma come se Len ed Esaù fossero stati uno spettacolo di straordinario interesse per tutti. Len disse:

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