Questo accadeva alla fine di gennaio.
In febbraio, per tutta la campagna uomini e ragazzi andarono con succhielli, e altri attrezzi nei boschi di aceri. I primi segni della primavera imminente cominciarono a respirarsi nell’aria ancora fredda. L’ultima nevicata intensa venne, si accumulò sul terreno e sugli alberi, e si sciolse intiepidita dal nuovo sole. Ci fu un periodo nel quale gelate e disgelo si alternavano, e papà cominciò a preoccuparsi per i nuovi germogli. Il vento soffiava gelido da nord-ovest, e pareva che la primavera non dovesse mai arrivare, ma era là, vicina. Il primo agnello venne al mondo belando. E, come aveva detto Esaù, non c’era tempo per niente, all’infuori del lavoro.
I salici diventarono gialli, e poi di un verde pallido, piumoso. Ci furono alcune giornate tiepide, che toglievano le forze e rendevano sonnolenti e pigri, come le grosse bisce dei fossi che oziavano al sole. Nuovi vitelli schiamazzavano barcollando dietro le madri, e altri ne sarebbero ancora venuti. Le mucche erano nervose e agitate, e nella mente di Len cominciò a formarsi un’idea. Era così semplice che si domandò per quale motivo non gli fosse venuta in mente già da molto tempo. Dopo avere sbrigato le faccende serali, quando suo fratello James ebbe chiuso il fienile, Len ritornò furtivamente indietro, e aprì la porta sul retro. Un’ora dopo erano tutti fuori, nel buio e al freddo, per radunare le mucche che si erano disperse nella campagna, e quando, tornati indietro, le contarono, scoprirono che ne mancavano ancora due. Papà borbottò qualcosa, infuriato, contro la stupida ostinazione di certe bestie che preferivano scappare e nascondersi sotto un cespuglio, dove se accadeva loro qualcosa non c’era nessuno in grado di aiutarle. Diede una lanterna a Len, e gli disse di raggiungere di corsa la fattoria dello zio David, che si trovava a mezzo miglio di distanza, lungo la strada, per chiedere a lui e a Esaù di venire ad aiutarli nelle ricerche. Fu così semplice, dopo tanti piani e tante preoccupazioni.
Len percorse quel mezzo miglio a passo veloce, con la mente intenta a prevedere le più svariate possibilità, e a prepararsi ad affrontarle, con una prontezza all’inganno che non mancò di spaventarlo. Era sempre stato piuttosto pigro, ma non era mai stato un bugiardo, ed era terribile scoprire con quanta rapidità si potessero imparare i vizi peggiori. Cercò di giustificarsi, pensando che in fondo non aveva mai detto a nessuno una bugia in modo diretto. Ma non serviva a niente. Era come uno di quei sepolcri imbiancati di cui si parlava nella Bibbia, belli all’esterno e pieni di corruzione dentro. E alla sua destra, mentre correva, vide i boschi rischiarati dal chiarore delle stelle, cupi e misteriosi nella notte.
La cucina della fattoria dello zio David era calda e accogliente. C’era odore di cavoli e di vapore e di stivali messi ad asciugare, e tutto era così lindo e pulito che Len esitò a entrare, anche se si era pulito gli stivali sui gradini, fuori. C’era uno straccio messo davanti alla porta, e lui rimase fermo là sopra, riferendo il suo messaggio, tentando di riprendere fiato, e cercando, nello stesso tempo, di attirare l’attenzione di Esaù senza assumere un atteggiamento troppo scopertamente colpevole. Lo zio David brontolò e imprecò sommessamente, ma cominciò a infilare gli stivali, e la zia Maria gli andò a prendere la giacca e la lanterna. Len respirò profondamente.
«Mi sembra di avere visto qualcosa di bianco muoversi nei campi, a ovest,» disse. «Avanti, Esaù, andiamo a vedere!»
Ed Esaù lo seguì, con il cappello di traverso e un braccio ancora fuori della giacca. Corsero via, insieme, prima che lo zio David potesse pensare a fermarli e saltarono qua e là sopra le buche colmate dalla pioggia recente, tuffandosi nel campo occidentale, deviando sempre più verso i boschi. Len nascose la lanterna sotto la giacca, in modo che lo zio David non potesse vederla dalla strada, quando entrarono veramente nei boschi, e continuò a tenerla nascosta per qualche tempo, dopo, sapendo che non c’era alcun pericolo di smarrirsi, anche al buio, su quel sentiero che conosceva bene come la propria casa.
«Dopo potremo dire che la lanterna si è spenta,» disse a Esaù.
«Certo,» disse Esaù, con una strana voce tesa. «Facciamo presto».
Si affrettarono. Esaù prese la lanterna, e corse audacemente davanti al cugino. Quando giunsero al posto nel quale i due fiumi s’incontravano, egli posò al suolo la lanterna, e prese dal tronco cavo la radio con mani che tremavano. Len sedette sul vecchio tronco caduto, con la bocca aperta, le mani premute sui fianchi indolenziti. Il Piper’s Run stava ruggendo come un vero fiume, gonfio e impetuoso fino agli argini alti. C’era un vortice di spuma, nel punto in cui le sue acque si gettavano in quelle del Pymatuning. L’acqua era tumultuosa, bianca di spuma, altissima, ora, quasi allo stesso livello del terreno sul quale si trovavano, e rifletteva confusamente il chiarore delle stelle, e la notte era piena di quel suono impetuoso.
Esaù lasciò cadere la radio.
Len balzò avanti, lanciando un grido. Esaù riafferrò la scatola, velocissimo e frenetico, prendendola per il rocchetto sporgente. Il rocchetto si staccò, e la radio continuò a cadere, più piano, però, pendendo dal filo tenuto dalle mani di Esaù. Cadde, con un soffice tonfo, sull’erba dell’anno prima. Esaù rimase a guardare con occhi sbarrati la scatola, l’erba, il rocchetto, e il filo.
«Si è rotta,» disse. «Si è rotta».
Len s’inginocchiò subito sul terreno.
«No, non si è rotta. Guarda». Avvicinò la radio alla lanterna, e la indicò. «Vedi quelle due piccole molle? Il rocchetto può uscire, e il filo si svolge…».
Eccitatissimo, girò il bottone. Era una cosa che non avevano saputo, né tentato, prima di quel momento. Aspettò che iniziasse il ronzio. Questa volta, era molto più forte che in passato. Indicò a Esaù di indietreggiare, e l’altro obbedì, srotolando il filo, e il rumore si fece sempre più forte, e d’un tratto, senza alcun preavviso, una voce d’uomo disse, raschiante e molto, molto lontana:
«…ritornare anch’io alla civiltà il prossimo autunno, spero. Comunque, la roba è sul fiume, pronta da caricare, non appena…».
La voce scomparve in un rombo che pareva prodotto dal vento. Attonito, Esaù srotolò il filo fino in fondo. E una voce debole, debolissima, disse:
«Sherman vuole sapere se avete notizie di Byers. Non si è messo in con…»
E fu tutto. Il rombo e il rischio e il ronzio continuarono, così forti che i due ragazzi ebbero paura che si potessero udire lontano, nei campi dove proseguiva la ricerca delle mucche smarrite. Ancora una, due volte ebbero l’impressione di cogliere delle voci debolissime, in mezzo a quel fragore, ma non riuscirono a distinguere chiaramente altre parole. Len girò il bottone, ed Esaù riarrotolò il filo metallico nel rocchetto, e premette in modo che ritornasse al suo posto: il rocchetto rientrò nel suo spazio, con un lieve scatto delle piccole molle.
I due ragazzi riposero la radio nell’albero cavo, e raccolsero il lume rimasto sul terreno, e si allontanarono, attraverso i boschi notturni. Non parlarono. Non si scambiarono neppure un’occhiata. E nel vacillante chiarore della lanterna, i loro occhi erano grandi e scintillanti.
Dapprima apparve la nube di polvere, in fondo alla strada. Poi la cima del tendone lampeggiò, bianca, colpita dai raggi del sole, un biancore vivissimo tra il verdeggiare degli alberi. Il tendone si fece più grande e più rotondo, e il carro cominciò ad apparire, sotto di esso, e i cavalli che lo tiravano cominciarono ad apparire più chiaramente, dalla confusa macchia nera e tumultuosa della prima apparizione alla fila sgranata di sei grandi cavalli bai che trottavano fieri come imperatori, con i morsi schiumanti e i finimenti tintinnanti.
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