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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Quell’albero cavo diventò il perno intorno al quale giravano le giornate di Len, e fu la cosa più eccitante che si potesse immaginare, ma anche quella che procurava le maggiori frustrazioni. Ora che aveva una ragione vera per andare là, gli sembrava sempre più difficile, se non impossibile, trovare il tempo e le scuse per addentrarsi nei boschi, che erano stati la mèta di tutte le sue peregrinazioni nei giorni e negli anni precedenti. La stagione cambiò, cominciò a fare freddo, e venne la pioggia, e poi la brina, e poi cadde la neve. Il bestiame doveva essere portato nelle stalle, all’inizio della stagione fredda, e da quel giorno c’era poco tempo a disposizione, nella giornata, occupata completamente dalle necessità di tanti animali da sfamare, lavare, accudire. C’era la mungitura, e poi il pollaio da vedere, e poi da dare una mano alla mamma a mescolare il burro e a portare la legna da ardere per la stufa, e così via.

Dopo le faccende del mattino, che doveva sbrigare quando era appena chiaro, egli percorreva un miglio e mezzo di strada fino al villaggio, su strade che un giorno erano piene di fango, e il giorno dopo ghiacciate e dure come il ferro. Sul lato occidentale della piazza del villaggio, oltre la bottega del fabbro, ma prima di quella del ciabattino, c’era la casa del signor Nordholt, il maestro di scuola, e là, con gli altri ragazzi di Piper’s Run, Len doveva combattere contro l’aritmetica e le lettere, le letture e la storia della Bibbia, fino a mezzogiorno, quando veniva lasciato libero di ritornare a casa, sempre a piedi, e sempre su quella strada difficilmente praticabile. E poi c’erano tutte le altre cose. Spesso Len pensava di avere più da fare di papà e di suo fratello James messi assieme.

Suo fratello James aveva diciannove anni, e stava per sposare la figlia maggiore del signor Spofford, il mugnaio. Era molto simile a papà, grande e grosso e tranquillo, fiero della sua bella barba recente, malgrado essa fosse quasi rosea. Quando il tempo era bello, Len andava con lui e con papà nella legnaia, oppure in giro, a riparare le staccionate o a pulire le siepi, e a volte andavano tutti a caccia, sia per procurarsi la carne che per procurarsi le pelli degli animali, perché nulla veniva sprecato, né gettato via. C’erano cervi, tassi, opossum, procioni e roditori, secondo la stagione dell’anno, e scoiattoli; e si diceva, anche se le voci erano molto vaghe e confuse, che gli orsi che vivevano nelle parti più selvagge della Pennsylvania avessero deciso di scendere dalle loro colline, per spingersi a ovest, fino all’Ohio; e a volte, se l’inverno era molto duro, c’erano voci che parlavano di branchi di lupi a nord, nella regione dei laghi. C’erano delle volpi da tenere lontane dai pollai, e topi da tenere lontani dal grano, e conigli da tenere lontani dal frutteto. E tutte le sere c’era di nuovo la mungitura, e le faccende da sbrigare prima del riposo, e poi la cena, e il letto. Non rimaneva molto tempo, perciò, per la radio.

Eppure, sia da sveglio che nel sonno, la radio non gli usciva mai dalla mente. Due cose erano legate a essa: un ricordo e un sogno. Il ricordo era la morte di Soames. Il tempo lo aveva trasfigurato, fino a renderlo più alto, e più nobile, e più splendido di quanto mai fosse stato qualsiasi mercante dai capelli biondi, e la luce del falò che lo aveva illuminato si era confusa con la gloria del martirio. Il sogno era quello di Bartorstown. Era stato composto pezzo per pezzo dalle storie narrate dalla nonna, e da alcuni frammenti di sermoni, e dalle descrizioni classiche del paradiso. Quella Bartorstown aveva dei bianchi edifici immensi che salivano verso il cielo, ed era piena di suoni e di colori, e di persone vestite in fogge strane, e risplendeva di luce, ed era piena di tutte le cose che la nonna aveva descritto, macchine e generi di lusso e mille e mille piaceri.

La cosa più tormentosa di quella piccola radio era che lui ed Esaù sapevano che si trattava di un legame con Bartorstown, e che se essi avessero saputo usarla avrebbero potuto udire realmente le voci degli uomini di Bartorstown parlare delle meraviglie di Bartorstown. Forse avrebbero potuto scoprire addirittura dove si trovava, e come la si poteva raggiungere, se si desiderava farlo. Ma per Esaù andare nel bosco era difficile almeno quanto per Len, e nei pochi momenti rubati al lavoro quotidiano essi non riuscirono a ottenere dalla radio che dei rumori privi di senso.

La tentazione di rivolgere alla nonna qualche domanda sulle radio era quasi superiore alle capacità di resistenza di Len. Ma non osava farlo, e comunque era sicuro che la nonna non doveva saperne più di quanto ne sapeva lui.

«Abbiamo bisogno di un libro,» disse Esaù. «Ecco quello che ci manca. Un libro che spieghi come funzionano queste cose.»

«Sì,» disse Len. «Certo. Ma come pensi di procurartelo?»

Esaù non rispose.

Le grandi ondate di freddo calarono dal nord e dal nord-ovest, una dopo l’altra. Cadde la neve, che poi si sciolse nel vento caldo venuto dal sud, e poi il pantano che rimase nei campi gelò, per le nuove ondate di freddo, mentre la temperatura si abbassava. Qualche volta piovve, invece, una pioggia gelata e insistente, e i boschi nudi gocciolavano. La pila di concime dietro il fienile si trasformò in una bruna montagna collosa. E Len pensava.

Forse era stato merito dello stimolo offerto dalla radio, o semplicemente lui stava diventando adulto, o entrambe le cose si erano unite… ma lui vedeva le cose che lo circondavano in una luce diversa, come se fosse riuscito a distaccarsi un poco da esse, evitando di farsi confondere alla vicinanza. Questo nuovo tipo di prospettiva non era con lui sempre, certo: anzi, in prevalenza lui era troppo stanco o troppo affaccendato per pensare ad altre cose. Ma di quando in quando vedeva la nonna seduta accanto al fuoco, intenta a lavorare a maglia con le sue mani vecchie e malferme, e si sentiva triste per lei perché era vecchia, e pensava alla lunga vita che aveva avuto e a tutto ciò che aveva visto, mentre la piccola Esther, una copia in miniatura della mamma, con la cuffietta leggera e il piccolo grembiule e tutte le gonne, era giovane e cominciava a vivere allora.

Poi vedeva la mamma, sempre affaccendata intorno a qualcosa, a lavare, cucire, filare, tessere, ricamare, assicurarsi che la tavola fosse ben rifornita di cibo per gli uomini stanchi del lavoro e pieni di sano appetito, una donna solida, sicura, molto dolce e molto tranquilla. Vedeva la casa nella quale viveva, le familiari camere dipinte di bianco delle quali conosceva ogni fessura e sporgenza delle pareti di legno. Era una vecchia casa. La nonna diceva che era stata costruita solo un anno o due dopo la costruzione della chiesa. I pavimenti salivano e scendevano, e le pareti pendevano un poco, ma la casa era ancora solida come una montagna, fatta di grandi tronchi messi insieme dal primo Colter che era venuto là, molte generazioni prima della Distruzione. Una casa vecchia, eppure non era troppo differente dalle nuove case che venivano costruite ora. Quelle che erano state costruite durante l’infanzia della nonna, o subito prima, erano le case dall’aspetto realmente strano, piccole cose dal tetto piatto le cui pareti avevano dovuto essere in prevalenza rinforzate con grandi, robusti tronchi, e le cui finestre chiuse da assi inchiodate erano buchi grandi e privi di ragione. Lui si alzava e cercava di toccare il soffitto, e pensava che l’anno prossimo avrebbe potuto riuscirci. E una grande ondata di amore lo travolgeva, e pensava. Non me ne andrò mai da qui, mai, mai! E la sua coscienza doleva, con una forza quasi fisica, perché lui sapeva di comportarsi male a giocare con la radio proibita e con i sogni proibiti di Bartorstown.

Per la prima volta, lui vedeva davvero suo fratello James, com’era realmente, e lo invidiava. Il suo viso era placido e liscio come quello della mamma, e nei suoi occhi non brillava neppure una scintilla di curiosità. Lui non si sarebbe curato neppure dell’esistenza di venti Bartorstown sull’altra riva del Pymatuning, non avrebbe fatto nulla per raggiungerle, neppure per vederle. Lui voleva soltanto sposare Ruth Spofford e restare dov’era. Len intuiva confusamente che suo fratello James era uno di quei pochi privilegiati che non dovevano mai pregare Dio per ottenere da lui là grazia di un cuore contento.

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