Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Uno era un libro verde scuro intitolato Fisica Elementare. Un altro era sottile e bruno, con un lungo titolo: Introduzione alla Radioattività e alle Scienze Nucleari. Il terzo era grosso e grigio, e si chiamava Storia degli Stati Uniti. Le parole dei primi due titoli non dicevano nulla a Len, tranne che vi riconosceva la parola Radio. Voltò le pagine, in fretta, con dita che tremavano, cercando di assorbire tutto con un solo sguardo, e vedendo soltanto stampa e disegni strani e confusi. Qua e là, sulle pagine, qualcuno aveva sottolineato, oppure scritto a margine: «Lunedì esperimento», o «Fino a qui», o «Scrivere per richieste al solito indirizzo».

Len avvertì un desiderio insaziabile di sapere, una frenesia che non aveva mai conosciuto in passato, perché nulla l’aveva fatta salire alla superficie del suo essere. Quei desideri erano violenti, gli salivano alla testa, così forti da farlo soffrire. Voleva leggere. Voleva prendere i libri e avvolgersi in essi e assorbirli fino all’ultima parola e all’ultima figura. Sapeva benissimo quale fosse il suo dovere, ma non lo fece, non l’avrebbe mai potuto fare. Avvolse amorevolmente i libri nel telo, e li rimise al loro posto, con prudenza, nell’incavo dell’albero. Poi si lanciò di nuovo di corsa nei boschi, sulla strada di casa, e la sua mente cominciava a tessere stratagemmi per ingannare papà e per dare un aspetto innocente ai suoi colpevoli viaggi nei boschi. La sua coscienza mandò un solo pigolio, non più acuto di quello di un pulcino di un giorno, e poi tacque.

5.

Esaù stava per scoppiare in lacrime. Abbassò rabbiosamente il libro che teneva in mano, e disse, furibondo:

«Non capisco cosa significhino le parole, e allora a che cosa mi serve? Semplicemente, ho corso un grosso rischio per niente!»

Aveva letto e riletto il libro di fisica, e quello sulla radioattività, che successivamente era stato messo in disparte, perché apparentemente non aveva niente a che fare con le radio, e comunque era incomprensibile, dalla prima all’ultima riga. Ma il libro di fisica… un altro bizzarro uso della parola, che per poco non aveva indotto Esaù a non prenderlo, quando aveva cercato nella biblioteca del signor Nordholt… conteneva una parte che riguardava le radio. L’avevano letta e riletta, scambiandosi opinioni e commenti, fino a quando le parole strane e impronunciabili non si erano impresse nelle loro menti, fino a quando essi non furono in grado di tracciare diagrammi di onde e circuiti, triodi e oscillatori, anche in sogno… senza capire neppure lontanamente quale fosse il loro significato.

Len raccolse il libro, che Esaù aveva lasciato cadere a terra, e ripulì la copertina dal terriccio. Poi lo aprì di nuovo, guardò una pagina, e scosse il capo. Disse, amaramente:

«Non dice come fa a uscire la voce».

«No. E non dice nemmeno a che cosa servono i bottoni e il rocchetto». Esaù rigirò la radio tra le mani, con aria sepolcrale. Sapevano, ormai, che uno dei bottoni serviva a renderla rumorosa o quieta… viva o morta, pensava inconsciamente Len. Ma tutti gli altri bottoni rimanevano un mistero. Rendendo il rumore molto sommesso, e avvicinando la radio all’orecchio, avevano appreso che il suono usciva da una delle aperture. A che cosa servissero le altre due era un altro mistero. Nessuno dei bottoni, o delle aperture, assomigliava agli altri bottoni o alle altre aperture, e così era logico sospettare che tutti servissero a differenti propositi. Len era sicurissimo che una delle aperture servisse a fare uscire il calore, come il ventilatore nei fienili, perché appoggiando la mano sull’apertura si poteva avvertire un certo aumento del calore, dopo qualche tempo. Ma questo lasciava ancora molti misteri insoluti, uno dei quali era l’enigmatico rocchetto di filo metallico. Tese le mani, e prese la radio da Esaù, perché gli piaceva tenerla tra le mani, per quella specie di fremito sommesso che la pervadeva, qualcosa di simile a una macchia d’erba di palude nel vento.

«Il signor Hostetter deve sapere come funziona,» disse.

Erano ormai sicuri, in cuor loro, che il signor Hostetter, come il signor Soames, fosse venuto da Bartorstown.

Esaù disse:

«Sì. Ma non possiamo chiederglielo».

«No».

Len continuava a rigirare la radio tra le mani, accarezzando i bottoni, il rocchetto, le aperture. Un vento gelido faceva sbattere i rami nudi degli alberi, sopra le loro teste. C’era del ghiaccio nel Pymatuning, e il tronco caduto sul quale il ragazzo sedeva era freddo e pungente come se fosse stato anch’esso di ghiaccio.

«Mi chiedo se, forse…» cominciò, lentamente.

«Sì?»

«Be’, se parlano tra loro con queste radio, non lo faranno certo di giorno, vero? Voglio dire… di giorno la gente potrebbe sentirli. Se fossi io, aspetterei fino a notte, quando la gente dorme».

«Be’, non sei tu a farlo,» disse Esaù, acidamente. Ma rifletté su quelle parole, e gradualmente l’idea si fece strada nella sua mente. «Però scommetto che hai ragione. Scommetto che fanno proprio così! Noi l’abbiamo maneggiata solamente di giorno, e naturalmente di giorno loro non parlano. Prova a immaginare il signor Hostetter, intento a parlare per radio di giorno, nella piazza del mercato, con tutta la gente intorno, e tanti ragazzi pronti a intrufolarsi in tutti i carri!»

Si alzò in piedi, e cominciò a camminare su e giù per la radura, soffiandosi sulle dita intirizzite per scaldarsi.

«Dobbiamo fare dei piani, Len. Dobbiamo riuscire a venire qui durante la notte».

«Sì,» disse Len, entusiasta, e immediatamente si pentì di quanto aveva detto. Non sarebbe stata un’impresa così facile.

«Una caccia al tasso,» disse Esaù.

«No. Mio fratello vorrebbe certamente venire… e anche mio padre».

La caccia all’opossum offriva gli stessi problemi, e la caccia al cervo era un avvenimento che non avrebbe attirato solamente papà e il fratello James, ma molte altre persone delle fattorie vicine.

«Be’, continua a pensarci». Esaù cominciò a riporre i libri e la radio nel nascondiglio. «Io devo tornare a casa».

«Anch’io». Len guardò con rimpianto il grosso volume di storia, desiderando di poterlo portare con sé. Esaù lo aveva preso, impulsivamente, perché vi aveva visto delle immagini di macchine. Era una lettura difficile, piena di nomi strani, e di molte cose che lui non riusciva a capire, ma lo tormentava, ogni volta che si soffermava a leggere qualcosa, dandogli la smania di leggere ancora, di sapere che cosa sarebbe venuto nelle pagine successive. «Forse la cosa migliore sarebbe quella di approfittare della prima occasione per scivolare fuori di casa, e venire qui, indipendentemente l’uno dall’altro. Se tentiamo di venire tutti e due, sarà più difficile».

«Nossignore! Io ho rubato la radio, e ho rubato i libri, e nessuno dovrà sentire una voce senza che io sia qui!»

Aveva un aspetto così ferocemente deciso che Len si affrettò a dirgli di sì.

Esaù si assicurò che tutto fosse a posto, e poi indietreggiò. Guardò l’albero cavo, corrugando la fronte.

«Non credo che serva a molto ritornare qui, prima di allora. E ci sarà da lavorare molto, tra poco, alla fattoria. Cominceranno a nascere gli agnelli, e poi…».

Con un’amarezza profonda e matura che sorprese Len, allora, Esaù aggiunse, con forza:

«C’è sempre qualcosa, c’è sempre qualche ragione per cui non si può sapere, o imparare, o fare qualcosa! Ne sono stanco. E che io sia dannato se intendo passare tutta la vita a questo modo, scavando letame e mungendo le vacche!»

Len ritornò a casa, camminando lentamente lungo il sentiero del bosco, riflettendo profondamente su quelle parole. Poteva sentire che qualcosa cresceva dentro di lui, qualcosa che stava crescendo anche nell’animo di Esaù. Lo spaventava, questo. Non voleva che quella cosa oscura crescesse. Ma sapeva che, se avesse cessato di crescere, lui sarebbe stato parzialmente morto, non fisicamente, ma come le mucche e le pecore, che brucavano l’erba ma non si curavano di ciò che la faceva crescere.

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