Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Gli uomini si avvicinarono, insieme, al carro dello zio David, e lo zio David disse qualcosa a Esaù. Esaù continuò a fissarsi le mani. Non parlò, non mosse il capo, e il signor Nordholt disse:

«Non intendeva dirlo, gli è solo sfuggito. Ma l’ha detto».

Papà si voltò, guardò Len, e disse:

«Vieni qui».

Len si mosse, lentamente. Non alzò il capo per guardare papà, non per la collera che avrebbe potuto leggere sul suo volto, ma per l’espressione triste e addolorata che vi avrebbe trovato.

«Len».

«È vero che avete una radio?»

«Io… sì».

«Tu hai letto certi libri che sono stati rubati? Sapevi dov’erano, e non l’hai detto al signor Nordholt? Sapevi quello che Esaù intendeva fare, e non l’hai detto né a me, né allo zio David?»

Len sospirò. Con un gesto curiosamente simile a quello di un uomo vecchio e stanco, sollevò il capo, e sollevò le spalle.

«Sì,» disse. «Ho fatto tutte queste cose».

Il volto di papà, nelle ombre, del tramonto che incupivano l’aria, si era trasformato in qualcosa di grigio e strano, qualcosa che pareva di granito.

«Benissimo,» disse. «Benissimo».

«Potete venire con noi,» disse il signor Glasser. «Per una distanza così breve, inutile preparare il vostro carro».

«Va bene,» disse papà. E lanciò a Len uno sguardo gelido e imperioso, che voleva dire, Vieni Con Me.

Len lo seguì. Passò davanti al signor Hostetter, che era in piedi, con la testa girata, e sotto la tesa del suo cappello, Len credette di scorgere un’espressione di pietà e di rammarico. Ma passarono senza parlare, ed Esaù non si mosse neppure. Papà salì sul carro, con il signor Fenway, e il signor Glasser salì dopo di lui.

«Dietro,» ordinò papà.

Len si issò pesantemente sul carro, e ogni movimento fu uno sforzo impietoso, per lui. Rimase aggrappato là, e i carri ripartirono in fila, uscirono dall’aia e attraversarono la strada contornando il campo occidentale, dirigendosi verso i boschi.

Si fermarono là dove crescevano i sommacchi. Scesero tutti, e gli uomini parlarono tra di loro. E poi papà si voltò e disse:

«Len!» Puntò il braccio verso i boschi. «Mostraci dov’è.»

Len non si mosse.

Esaù parlò, per la prima volta.

«Tanto vale che tu lo faccia,» disse, con una voce carica di odio. «Lo troveranno comunque, anche se dovranno bruciare l’intero bosco».

Lo zio David lo zittì, con uno schiaffo sulla bocca, e lo chiamò con un appellativo di collera biblica.

Papà disse, di nuovo:

«Len».

Len si arrese. Guidò il gruppo di uomini nei boschi. E il sentiero pareva sempre lo stesso, e così pure gli alberi, e il ruscello, e le familiari macchie di stramoni. Ma qualcosa era cambiato. Qualcosa era scomparso. Erano soltanto alberi, adesso, e stramoni, e il letto sassoso di un rivoletto d’acqua. Non appartenevano più a lui, non erano più il mondo che si faceva bianco di neve e scintillante di ghiaccio e fiammeggiante d’autunno e verdeggiante di tenera primavera. Tutte quelle cose erano chiuse e distanti, e i contorni erano aspri e duri, e i pesanti stivali degli uomini schiacciavano le felci.

Uscirono dagli stramoni nel punto in cui le acque dei due fiumi si riunivano. Len si fermò accanto all’albero cavo.

«Qui,» disse. La sua voce parve strana e diversa, nelle sue orecchie. L’ardore rosso di ponente giungeva chiaro in quel luogo, attraverso le acque e il cielo, dipingendo le foglie e l’erba di un verde livido, dando al bruno Pymatuning riflessi di rame. In alto dei corvi ritornavano a casa, in un lento, grave battito d’ali, lanciando durante il volo le loro risate di scherno. Len pensò che stessero ridendo di lui.

Lo zio David diede una spinta sgarbata, violenta a Esaù.

«Tirala fuori».

Esaù rimase per un momento immobile accanto all’albero. Len lo osservò, e vide l’espressione che egli aveva, nella luce del tramonto. I corvi se ne andarono, e ci fu silenzio.

Esaù infilò la mano nel cavo dell’albero. Tirò fuori i libri, avvolti nel telo, e li porse al signor Nordholt.

«Sono intatti,» disse.

Il signor Nordholt aprì il telo, scostandosi dall’ombra dell’albero, per vedere meglio.

«Sì,» disse. «Sì, sono intatti». Li avvolse di nuovo, gelosamente, e li tenne appoggiati al petto.

Esaù tirò fuori la radio.

Rimase così, tenendola stretta, e improvvisamente gli occhi gli si riempirono di lacrime, lacrime che scintillavano ma non cadevano. Gli uomini erano adesso esitanti. Il signor Hostetter disse, come se avesse già detto la stessa cosa più di una volta, ma avesse avuto paura che qualcuno non l’avesse capita:

«Soames mi aveva chiesto, nel caso gli fosse accaduto qualcosa, di prendere i suoi effetti personali e consegnarli a sua moglie. Mi aveva mostrato il cofano nel quale li conservava. La gente che era andata alla predica stava per assalire e bruciare il suo carro. Non ho avuto certo il tempo di fermarmi per vedere che cosa ci fosse nel cofano».

Lo zio David fece un passo avanti. Egli fece cadere la radio dalle mani di Esaù, con un colpo violento, calando il pugno come un maglio. La radio cadde nel terriccio erboso e nel muschio, ed egli la calpestò, con il suo stivale pesante, molte, molte volte. Poi raccolse ciò che ne restava, e gettò i resti nelle acque brune del Pymatunin.

Esaù disse:

«Ti odio. Vi odio tutti». Li guardò uno dopo l’altro. «Non potete fermarmi. Nessuno di voi può farlo. Un giorno andrò a Bartorstown».

Lo zio David lo colpì di nuovo, e lo prese per i capelli, e lo fece voltare, spingendolo verso gli alberi. Senza voltarsi, disse:

«Penserò io a lui».

Gli altri lo seguirono in fila, dopo che il signor Harkness ebbe frugato nel cavo dell’albero, per assicurarsi che non vi fosse rimasto qualche altro frutto proibito. E il signor Hostetter disse:

«Chiedo che il mio carro venga perquisito».

Il signor Harkness disse:

«Vi conosciamo da tantissimo tempo, Ed. Non credo che questo sia necessario».

«No, lo esigo,» disse Hostetter, parlando forte, in modo che tutti potessero sentire. «Questo ragazzo ha fatto un’accusa che non posso lasciar passare. Chiedo che il mio carro venga perquisito, da cima a fondo, in modo che non possano sussistere dubbi sul fatto che io possieda qualcosa che non dovrei avere. I sospetti, una volta avviati, sono difficili da eliminare, e le notizie viaggiano. Non posso permettere che altre persone pensino di me quello che pensavano di Soames».

Un brivido percorse Len. Si accorse, improvvisamente, che Hostetter stava offrendo, nello stesso tempo, una spiegazione e delle scuse.

Comprese anche che Esaù aveva commesso un errore fatale.

Il viaggio di ritorno, attraverso il campo occidentale, parve molto, molto lungo. Questa volta i carri non entrarono nell’aia. Si fermarono nella strada, e Len e papà scesero, e gli altri si disposero diversamente, in modo che Esaù e lo zio David rimanessero soli sul loro carro. Poi il signor Harkness disse, quando tutto fu pronto:

«Domani desideriamo vedere i ragazzi». La sua voce era calma, una calma minacciosa come quella che precedeva un temporale. Tirò le redini, e il carro si mosse verso il villaggio, seguito dal secondo carro. Lo zio David si diresse dall’altra parte, verso la sua casa.

Esaù si sporse dal carro, e gridò, in tono isterico, a Len:

«Non ti arrendere. Non possono costringerti a smettere di pensare. Non importa quello che possono farti, ma non riusciranno a…».

Lo zio David girò il carro, e lo fece entrare nell’aia della fattoria.

«La vedremo,» disse. «Elia, voglio usare il tuo fienile».

Papà si accigliò, ma non disse niente. Lo zio David attraversò l’aia, dirigendosi verso il fienile, spingendo rudemente Esaù davanti a sé. La mamma uscì di corsa dalla casa. Lo zio David chiamò:

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