«Tu porta qui Len. Voglio che ci sia anche lui».
Papà si accigliò di nuovo, e poi disse:
«Va bene».
Tese le mani, come per arrestare la mamma, e la prese in disparte, e le mormorò qualche parola, a bassa voce, scuotendo il capo. La mamma guardò Len.
«Oh, no,» disse. «Oh, Lennie, come hai potuto!»
Poi si voltò, e rientrò precipitosamente in casa, nascondendosi il viso nel grembiule, e Len capì che stava piangendo. Papà indicò il fienile. Aveva le labbra strette, ed era molto pallido. Len pensò che a papà non piaceva quello che lo zio David stava per fare, ma che non se la sentiva di discutere.
Neppure a Len piaceva. Avrebbe preferito che la cosa fosse risolta tra lui e papà. Ma quel modo di fare era proprio dello zio David. Lui pensava sempre che un ragazzo non aveva più diritti, o più sensibilità, di qualsiasi altro oggetto o animale della fattoria. Len tremava, al pensiero di entrare nel fienile.
Papà puntò di nuovo il braccio, e Len obbedì.
Era buio, adesso, ma nel fienile era già accesa una lanterna. Lo zio David aveva staccato dal chiodo la cinghia di cuoio. Esaù era di fronte a lui, nell’ampio spazio libero tra le file di sostegni vuoti.
«In ginocchio,» disse lo zio David.
«No».
«In ginocchio!» E la cinghia schioccò.
Esaù emise un suono, tra il lamento e l’imprecazione. Si inginocchiò.
«Non rubare,» disse lo zio David. «Questo è il comandamento, e tu mi hai fatto diventare il padre di un ladro. Non dire falsa testimonianza. Tu mi hai fatto diventare il padre di un bugiardo». Il suo braccio si alzava e si abbassava, scandendo le parole, così che ogni pausa era sottolineata dal secco whuk! del cuoio contro le spalle di Esaù. «Tu sai cosa è scritto nel Libro, Esaù. Chi ama suo figlio lo castiga; chi odia suo figlio risparmia la frusta. E io non intendo risparmiarla».
Esaù non seppe tacere più a lungo. Len voltò le spalle.
Dopo qualche tempo, lo zio David si fermò, respirando affannosamente.
«Qualche tempo fa mi hai sfidato. Hai detto che non avrei potuto farti cambiare idea. La pensi ancora così?»
Rannicchiato sul pavimento, Esaù gridò a suo padre:
«Sì!»
«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»
«Sì!»
«Bene,» disse lo zio David. «Vedremo».
Len cercò di chiudersi le orecchie, di non ascoltare. Pareva che non dovesse mai finire. A un certo punto, papà fece un passo avanti, e disse:
«David…».
Ma lo zio David disse soltanto:
«Pensa a tuo figlio, Elia. Ti avevo sempre detto che eri troppo tenero con lui». Si rivolse di nuovo a Esaù, «Hai cambiato idea, ora?»
La risposta di Esaù fu inintelligibile, ma il tono era quello di una resa abietta.
«Tu!» disse improvvisamente lo zio David a Len, prendendolo per il braccio. «Guardalo, e impara come finiscono l’arroganza e l’insolenza».
Esaù stava strisciando e gemendo sul pavimento del fienile, tra la polvere e il fieno. Lo zio David lo fece girare, con la punta dello stivale.
«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»
Esaù gemeva e piangeva, tenendosi il volto nascosto tra le mani. Len cercò di liberarsi e voltarsi, ma lo zio David lo tenne fermo, con una stretta violenta e irresistibile. Dal suo corpo emanava un odore di sudore e di collera.
«Ecco il tuo eroe,» disse a Len. «Ricordalo, ricordalo bene, quando verrà il tuo turno».
«Lasciami andare,» bisbigliò Len. Lo zio David rise. Spinse via Len, e consegnò a papà la cinghia di cuoio. Poi si piegò, e prese Esaù per il colletto della camicia, e lo costrinse ad alzarsi in piedi.
«Dillo, Esaù. Dillo forte».
Esaù singhiozzava come un bambino piccolo.
«Sono pentito,» disse. «Sono pentito».
«Bartorstown,» tuonò lo zio David, nello stesso tono col quale Nahum doveva avere pronunciato la condanna della città maledetta. «Esci! Vieni a casa, a meditare sui tuoi peccati. Buonanotte, Elia, e ricorda… tuo figlio è colpevole quanto il mio».
Uscirono, nel buio della notte. Un minuto più tardi, Len sentì che il carro si allontanava.
Papà sospirò. Il suo volto era triste e stanco, e profondamente irato, una collera che era molto più spaventosa di quella violenta dello zio David. Disse, lentamente:
«Ho avuto fiducia in te, Len. Mi hai tradito».
«Non volevo farlo».
«Ma l’hai fatto».
«Sì».
«Perché, Len? Sapevi che queste cose erano cattive. Perché le hai fatte?»
Len gridò:
«Perché non ho potuto evitarlo! Io voglio imparare, io voglio sapere !»
Papà si tolse il cappello, e si rimboccò le maniche.
«Potrei fare una lunga predica su questo argomento,» disse. «Ma l’ho già fatto, ed è stato tutto fiato sprecato. Ricordi quello che ti ho detto allora, Len?»
«Sì, papà». Strinse la mascella e serrò i pugni.
«Mi dispiace,» disse papà. «Non avrei mai voluto fare questo. Ma devo purgarti del tuo orgoglio, Len, come è stato purgato Esaù».
Dentro di lui, Len disse, con fierezza, No, non lo farai non riuscirai a farmi strisciare ai tuoi piedi. Non rinuncerò a Bartorstown e ai libri e alla speranza di conoscere tutte le cose che esistono nel mondo, fuori da Piper’s Run!
Ma vi rinunciò. Nella polvere e nel fieno del fienile, egli rinunciò a tutte quelle cose, e al suo orgoglio con esse. E quella fu la fine della sua fanciullezza.
Aveva dormito, per un poco, un sonno nero e profondo, e poi si era svegliato di nuovo a fissare le tenebre, a sentire il dolore, e a pensare. Il corpo gli doleva, non del familiare dolore di una bastonatura, ma in modo grave, che non avrebbe dimenticato in fretta. Il male più profondo era quello che soffrivano le parti immateriali del suo essere, e così rimase disteso nel buio, a lottare con quella sofferenza, nella piccola stanza sbilenca sotto il grondone, che era ancora soffocante per il sole del lungo pomeriggio. Arrivò quasi l’alba, prima che le cose sorgessero chiare dalla cieca furia del dolore e della collera, del risentimento e della vergogna che turbinavano in lui come venti impetuosi in uno spazio angusto. Poi, forse perché era troppo esausto per essere ancora violento, cominciò a vedere qualcosa, e a capire.
Capì che quando aveva singhiozzato nelle tracce lasciate da Esaù, nella polvere e nel fieno, e quando aveva conosciuto l’abiezione della rinuncia e della resa, aveva mentito. Perché lui non intendeva rinunciare a Bartorstown. Non poteva rinunciare, senza rinunciare anche alla parte più importante di se stesso. Non sapeva ancora, con esattezza, quale fosse quella parte così importante, ma sapeva che c’era, e sapeva anche che nessuno, neppure papà, aveva il diritto di mettere le mani su quella cosa preziosa. Buona o cattiva, giusta o peccaminosa, quella parte di lui si trovava al di là del capriccio passeggero, o dell’atteggiamento, o del gioco fuggevole. Era lui stesso, Len Colter, l’entità individuale, unica, che corrispondeva a quel nome. Non poteva rinunciare a essa e nello stesso tempo continuare a vivere.
Quando ebbe infine compreso tutto questo, si addormentò di nuovo, un sonno più calmo, e si svegliò col sapore amaro delle lacrime in bocca, e vide la finestra chiara e luminosa e il sole che sorgeva all’orizzonte. L’aria era piena di suoni, il grido dei merli e il richiamo impetuoso dei fagiani tra le siepi, il cinguettare di innumerevoli uccelli che iniziavano la loro giornata. Len guardò fuori, oltre il tronco annerito dal fulmine di un acero gigantesco, che aveva un’indomabile sporgenza verdeggiante che continuava a uscire dal tronco rinsecchito, guardò oltre la tettoia del pollaio e la distesa familiare dei campi, là dove il grano maturava al sole; osservò il pendio delle colline e i boschi alti che s’inerpicavano fino alla cresta incoronata da tre grandi pini neri. E una cupa malinconia scese su di lui, perché stava guardando quelle cose buone per l’ultima volta. Non arrivò a quella decisione seguendo una linea di ragionamento consapevole. La conobbe, semplicemente, e immediatamente, nel momento stesso del suo risveglio.
Читать дальше