Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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C’erano pochi Amish o Mennoniti a Refuge. Gli abitanti appartenevano prevalentemente alla Chiesa della Santa Riconoscenza, e si chiamavano Kelleriti, dal nome di James P. Keller, fondatore della setta. Len ed Esaù avevano scoperto che c’erano pochissimi Mennoniti nei centri che vivevano sul commercio più che sull’agricoltura. E poiché essi avevano tagliato i ponti con la loro comunità, e non avevano alcun desiderio di rivelare la loro origine, o di ritornare a Piper’s Run, già dai primi tempi avevano abbandonato l’abito caratteristico della fede della loro adolescenza, adottando i vestiti molto più semplici e anonimi delle cittadine fluviali. Portavano i capelli corti, e il mento rasato, perché tra i Kelleriti c’era l’usanza, per gli uomini, di radersi la barba fino a quando rimanevano celibi, e di farsela crescere dopo sposati: una barba fluente era un segno che distingueva l’uomo sposato in maniera molto più definitiva di un anello, che si poteva togliere o mettere a volontà. Tutte le domeniche andavano regolarmente nella Chiesa della Santa Riconoscenza, e partecipavano alle devozioni quotidiane della famiglia che li ospitava, e qualche volta si dimenticavano perfino di non essere sempre stati Kelleriti.

A volte, pensava Len, essi dimenticavano perfino quale motivo li aveva spinti in quel luogo, e quello che stavano cercando. E per ricordare egli riandava col pensiero alla notte durante la quale aveva aspettato Esaù sulla punta di terra che dominava il Pymatuning, e a tutto quello che era accaduto prima di quel momento, e che lo aveva portato là, ed era abbastanza facile ricordare le sensazioni fisiche, l’aria fredda e il profumo delle foglie, le frustate, e l’espressione del volto di papà quando aveva sollevato la cinghia e l’aveva calata su di lui, sibilante e dolorosa. Ma l’altra parte, quella che aveva vissuto dentro , era più difficile da richiamare alla memoria. A volte ci riusciva solo compiendo uno sforzo intenso. Altre volte non ci riusciva affatto. E in altre occasioni… che erano le peggiori… quello che lui aveva provato al pensiero di lasciare la propria casa per andare a cercare Bartorstown gli sembrava una cosa assurda e infantile. Rivedeva la sua casa e la sua famiglia con chiarezza cristallina, e questa chiarezza gli produceva un dolore intenso, e lui pensava: Ho gettato via tutte queste cose per un nome, una voce nell’aria, ed eccomi qui, e sono un vagabondo senza casa, e dov’è, dov’è Bartorstown? Aveva scoperto soltanto che il tempo poteva essere un traditore, e che i pensieri erano come vette di montagna, una forma diversa da ogni lato, che cambiava quando ci si muoveva.

Il tempo aveva giocato un altro tiro. Lo aveva fatto crescere, e gli aveva dato molte preoccupazioni nuove, che lui non aveva mai conosciuto prima.

Una di queste era la ragazza dai capelli biondi.

Era una sera di mezzo giugno, calda e afosa, e il sole al crepuscolo era stato inghiottito da una nera voragine di nubi temporalesche. Le due candele sulla tavola bruciavano diritte, senza che dalle finestre aperte giungesse il minimo alito d’aria a muoverle. Len sedeva con le mani giunte e il capo chino, e guardava i resti di un budino di latte. Esaù sedeva alla sua destra, nello stesso atteggiamento. La ragazza dai capelli biondi sedeva di fronte a loro; si chiamava Amity Taylor, e suo padre stava rendendo grazie dopo il pasto, seduto a capotavola, e di fronte a lui la madre della ragazza ascoltava con reverenza.

«…stendi il manto della Tua misericordia per ripararci nel giorno della Distruzione…»

Amity guardò, di sotto l’ombra delle sue lunghe ciglia, alla luce delle candele, prima Len e poi Esaù.

«…i nostri ringraziamenti per l’abbondanza senza limiti della Tua benedizione…»

Len sentì lo sguardo della ragazza su di sé. La sua pelle era sensibile e fragile a quel tocco impalpabile, e così, senza neppure sollevare lo sguardo, seppe con certezza che lei lo stava fissando. Il suo cuore cominciò a battere più forte. Si sentì il viso infuocato. Le mani di Esaù erano sulla sua linea di visione, congiunte tra le ginocchia. Vide che quelle mani si muovevano e si irrigidivano, e capì che Amity aveva guardato anche Esaù, e si sentì ancora più infiammato, pensando al giardino e al luogo ombroso sotto il cespuglio di rose.

Il giudice Taylor non avrebbe mai smesso di parlare?

Finalmente arrivò l’«Amen,» soffocato dalla voce più cupa e profonda del tuono. In fretta, pensò Len, bisogna fare in fretta con i piatti, altrimenti non ci sarà nessuna passeggiata in giardino.

Per nessuno. Balzò in piedi, quasi rovesciando la sedia sul pavimento, ed Esaù balzò in piedi a sua volta, e i due giovani cominciarono a raccogliere i piatti dalla tavola precipitosamente, tanto da intralciarsi. Dall’altro lato della luce delle candele, Amity stava lentamente mettendo una tazza sull’altra, e sorrideva.

La signora Taylor andò in cucina, portando i due vassoi. Sulla porta del corridoio, il giudice pareva diretto nel suo studio, come sempre faceva dopo le ultime preghiere. Esaù si volse, improvvisamente, e lanciò a Len uno sguardo pieno di collera, e bisbigliò:

«Non ti immischiare!»

Amity s’incamminò verso la cucina, tenendo in equilibrio tra le mani la pila delle tazze. I capelli biondi le scendevano sulla schiena in una grossa treccia. Indossava un vestito di cotone, grigio, dal collo alto e dalla gonna lunga, ma non aveva su di lei l’effetto che aveva su sua madre. Amity camminava in modo meraviglioso. Quel modo di camminare faceva balzare il cuore in gola a Len, ogni volta che lo vedeva. Restituì l’occhiata minacciosa a Esaù, e s’incamminò dietro di lei, con il suo carico di piatti, facendo lunghi passi per arrivare per primo. E il giudice Taylor disse, con voce calma, dalla porta del corridoio:

«Len… vieni nel mio studio, quando avrai messo giù i piatti. Per una volta, possono fare senza di te.»

Len si fermò. Lanciò un’occhiata sorpresa e preoccupata al giudice Taylor, e disse:

«Sì, signore.»

Taylor assentì, e uscì dalla stanza. Len lanciò un’occhiata a Esaù, che pareva a sua volta sorpreso.

«Cosa diavolo vuole?» domandò Esaù.

«Come faccio a saperlo?»

«Ascolta. Ascolta, hai combinato qualcosa che non va?»

Amity stava varcando la soglia della cucina, muovendosi con grazia, con la gonna che fluttuava intorno alle caviglie. Len arrossì.

«Non più di quanto tu sappia, Esaù,» disse, cupamente. Seguì Amity in cucina, e posò sull’acquaio la sua pila di piatti. Amity cominciò a rimboccarsi le maniche, e disse a sua madre:

«Len non può aiutarci stasera. Il babbo lo vuole.»

Reba Taylor si voltò, dalla stufa, sulla quale una pentola d’acqua stava bollendo. La donna aveva un volto gentile, piacevole, anche se un po’ vacuo, e Len l’aveva classificata già da molto tempo tra le persone prive di curiosità. La vita era passata tranquilla e facile su di lei.

«Santo cielo, santo cielo,» disse. «Certo non avrai fatto niente di male, Len?.»

«Spero di no, signora.»

«Scommetto,» disse Amity, «Che si tratta di Mike Dulinsky e del suo magazzino.»

«Del signor Dulinsky,» la corresse seccamente Reba Taylor. «E tu preoccupati dei tuoi piatti, signorina! Sono affar tuo. E tu corri, Len. Molto probabilmente il giudice vorrà darti solo qualche consiglio, e non credo che ti faccia male ascoltarlo.»

«Sì, signora,» disse Len, e uscì dalla cucina, attraversò il soggiorno, entrò nel corridoio, e lo percorse in direzione dello studio, chiedendosi se qualcuno lo avesse visto baciare Amity in giardino, o se si trattasse della faccenda di Dulinksy, o di chissà quale altra cosa. Era andato spesso nello studio del giudice, e aveva parlato spesso con lui, di libri e del passato e del futuro e, a volte, perfino del presente, ma non era mai stato chiamato a quel modo, prima di quella sera.

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