La porta dello studio era aperta. Taylor disse:
«Entra, Len.»
Il giudice era seduto dietro la sua grande scrivania, nell’angolo delle finestre, che guardavano a ponente: il cielo, là, era di un nero bizzarro, come se qualcuno l’avesse cosparso di fuliggine. Gli alberi apparivano flosci e lividi, e il fiume scorreva, da un lato, come una striscia di piombo. Taylor era rimasto seduto a guardare lo scenario del tramonto, con una candela spenta e un libro ancora chiuso sulla scrivania, accanto al suo gomito. Era un uomo piuttosto piccolo, con le guance lisce e la fronte alta. I capelli e la barba erano sempre in ordine perfetto, la sua biancheria era pulita ogni giorno, e il suo semplice abito scuro era della migliore stoffa che giungeva sui mercati di Refuge. Len lo trovava simpatico. Possedeva molti libri, e li leggeva, e incoraggiava gli altri a leggerli, e non aveva paura della conoscenza, anche se non si vantava mai di possederne più di quanta gli fosse necessaria per la sua professione. ’Non richiamare mai un’attenzione eccessiva su di te,’ diceva spesso a Len. ’Ed eviterai una dose considerevole di guai.’
In quel momento disse a Len di entrare, e di chiudere la porta.
«Ho paura che stiamo per avere un colloquio molto serio, e desideravo che tu venissi qui da solo perché desidero che tu sia libero di riflettere e di prendere le tue decisioni senza… be’, senza nessun’altra influenza.»
«Non avete molta stima di Esaù, vero?» domandò Len, sedendosi sulla sedia che il giudice aveva sistemato per lui.
«No,» disse Taylor, «Ma questo non c’entra. Posso solo aggiungere che ho invece moltissima stima di te. E adesso, lasciamo perdere gli apprezzamenti personali. Len, tu lavori per Mike Dulinsky?»
«Sì, signore,» disse Len, cominciando a mettersi sulla difensiva. Dunque era quello.
«Hai intenzione di continuare a lavorare per lui?»
Len esitò solo per una frazione di secondo, prima di ripetere:
«Sì, signore.»
Taylor parve riflettere, osservando il cielo fuligginoso e l’ombra lìvida che gravava su tutte le cose. Le nubi furono percorse da una saetta enorme. Len cominciò a contare mentalmente, e quando arrivò a sette si udì un brontolio profondo di tuono.
«È ancora molto lontano,» commentò.
«Sì, ma arriverà. Quando vengono da quella direzione, sono sempre brutti, i temporali. Hai letto molto, Len, nel corso di quest’ultimo anno. Hai imparato qualcosa dalle tue letture?»
Len osservò amorevolmente gli scaffali. Era troppo buio per vedere i titoli, ma conosceva ormai i libri, dalle dimensioni e dal posto che occupavano, e ne aveva già letti molti, moltissimi.
«Spero di sì,» disse.
«Allora, cerca di applicare quello che hai imparato. Non è di nessuna utilità rinchiudere il sapere nella testa come in un armadio. Ti ricordi di Socrate?»
«Sì.»
«Era un uomo più grande e più saggio di quanto io e te potremo mai essere, ma questo non bastò a salvarlo, quando si scontrò con troppa forza contro l’intero corpo delle leggi e delle credenze pubbliche.»
Il fulmine dardeggiò di nuovo nelle nubi oscure, e questa volta l’intervallo fu molto più breve. Il vento cominciò a soffiare, allora, agitando i rami degli alberi, increspando la cupa superficie del fiume. In lontananza, delle figure stavano affaccendandosi intorno agli ormeggi delle chiatte, sui moli, oppure per sistemare teloni sulle casse di merci, o trasportare altre merci al riparo. Verso l’interno, tra gli alberi, le case bianche e argentate di Refuge scintillavano, nell’ultimo debole chiarore che veniva dall’alto.
«Perché vuoi affrettare il giorno?» domandò Taylor, con calma. «Non vivrai abbastanza per vederlo, né lo vedranno i tuoi figli, né i figli dei tuoi figli. Perché, Len?»
«Perché… che cosa?» domandò Len, ora sinceramente stupito.
Poi respirò più forte, quando Taylor gli rispose:
«Perché vuoi che le città ritornino?»
Len tacque, scrutando nell’oscurità che si era addensata improvvisamente a tal punto da rendere Taylor un’ombra indistinta, anche se il giudice era a meno di un metro da lui.
«Perché vuoi che le città sorgano ancora?» domandò di nuovo il giudice, a bassa voce. «Esse stavano già morendo, ancora prima della Distruzione. Megalopoli, annegata nelle proprie fogne, soffocata dai propri gas di scarico, schiacciata e sommersa dalla propria popolazione. ’Città’ suona come una parola musicale al tuo orecchio, ma cosa ne sai tu, in realtà, delle città?»
Avevano toccato questo argomento già altre volte.
«La nonna mi diceva…»
«Che allora lei era una ragazzina, e le ragazzine ben difficilmente avrebbero potuto vedere il sudiciume, le brutture, la povertà ammassata, il vizio. Le città erano come vampiri, che succhiavano tutta la vita del paese e la distruggevano. Gli uomini non erano più degli individui, ma unità di una vasta macchina, tutti modellati su un unico disegno, con gli stessi gusti e le stesse idee, la stessa educazione di massa che non educava ma copriva con una coperta di parole l’ignoranza. Perché vuoi far ritornare tutto questo?»
Una vecchia discussione, però applicata in maniera del tutto inattesa. Len balbettò:
«Non ho pensato alle città, in un modo o nell’altro. E non capisco cosa c’entri con questo il nuovo magazzino del signor Dulinsky.»
«Len, se tu non sei onesto con te stesso, la vita non sarà mai onesta con te. Uno stupido potrebbe dire che non vede e non capisce, ed essere onesto, ma non è questo il tuo caso. A meno che tu non sia ancora così bambino da non pensare oltre i fatti immediati.»
«Sono abbastanza vecchio da potermi sposare,» disse Len, con calore. «E questo dovrebbe rendermi di un’età sufficiente ad affrontare qualsiasi altra cosa.»
«È vero,» disse Taylor. «È vero. Ecco, comincia a piovere. Aiutami a chiudere le finestre.» Le chiusero, e Taylor accese la candela. Lo studio, ora, era soffocante, afoso, chiuso e intollerabile. «È un peccato, sì, è un vero peccato,» disse Taylor, «Che le finestre debbano essere sempre chiuse nel momento in cui comincia a soffiare un vento fresco. Sì, hai l’età giusta per sposarti, e credo che anche Amity abbia avuto qualche sua idea, in questo senso. È una possibilità che vorrei tu prendessi in considerazione, tra l’altro.»
Il cuore di Len cominciò a battere forte, come accadeva ogni volta che si trattava direttamente o indirettamente di Amity. Si sentì follemente eccitato, e nello stesso tempo gli parve che una trappola fosse stata predisposta, pronta a scattare davanti ai suoi piedi. Si mise di nuovo a sedere, e la pioggia cominciò a battere sulle finestre come grandine.
Taylor disse, lentamente:
«Refuge è un ottimo paese, così com’è. Potresti vivere bene, qui. Potrei toglierti dalla vita dei moli, e fare di te un avvocato, e col tempo diventeresti un uomo importante. Avresti molto tempo libero per studiare, e tutta la sapienza del mondo la troveresti nei libri di questa biblioteca. E poi c’è Amity. Queste sono le cose che io potrei darti. Cosa ti offre, invece, Dulinsky?»
Len scosse il capo.
«Io faccio il mio lavoro, e lui mi paga. Non c’è altro.»
«Tu sai che sta violando la legge.»
«È una legge stupida. Un magazzino in più o in meno…»
«Un magazzino in più, in questo caso, rappresenta una violazione del Trentesimo Emendamento, che è la legge fondamentale della nostra terra. Non potrà essere trascurata con tanta leggerezza, questa violazione.»
«Ma non è giusto. Nessuno, qui a Refuge, vuole vedere crescere costantemente Shadwell, che sottrae al nostro paese una fetta sempre più grande di commercio, solo perché non ci sono magazzini e capannoni e depositi a sufficienza, da noi, per ospitare tutto il traffico.»
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