Leigh Brackett - La città proibita

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La città proibita: краткое содержание, описание и аннотация

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Forse era così. Il mondo era stupido, e pieno di gente stupida. Gente paurosa, che temeva di vedersi crollare addosso il cielo se anche una minima cosa fosse stata cambiata. Un mondo stupido. Lo odiava. Amity viveva in esso, e sempre in esso era nascosta Bartorstown, da qualche parte, in modo che nessuno potesse mai scoprirla, e la vita era oscura e piena di frustrazioni di ogni genere.

Stava ancora rimuginando tra sé tutti questi tenebrosi pensieri, quando Esaù arrivò sul molo.

Esaù portava le sue cose in un fagotto preparato frettolosamente, e il suo viso era rosso e minaccioso. Aveva il labbro tumefatto, da un lato. Gettò rabbiosamente il fagotto a terra, si mise davanti a Len, e dichiarò:

«Ho un paio di cose da sistemare con te.»

Len respirò forte dal naso. Non aveva paura di Esaù, e si sentiva così depresso e abbattuto che una rissa sarebbe stata accolta come un diversivo gradito. Non era alto come il cugino, ma aveva le spalle più larghe e massicce. Si mise in posizione, e attese.

«Perché ti è venuta voglia di andare via, e ci hai fatto sbattere fuori entrambi?» domandò Esaù.

« Io me ne sono andato. Tu sei stato sbattuto fuori.»

«Ho un bel cugino, io. Che cosa hai detto al vecchio Taylor, per fargli fare quello che ha fatto?»

«Niente. Non ne ho avuto bisogno.»

«Cosa intendi dire?»

«Non gli vai a genio, ecco cosa voglio dire. Non provocarmi a una rissa, se proprio non ne hai intenzione, Esaù.»

«Te la sei presa, eh? Be’, prenditela pure, e io ti dirò una cosa. E potrai riferirla al giudice. Nessuno potrà tenermi lontano da Amity. La vedrò tutte le volte che ne avrò voglia, e farò tutto quello che vorrò con lei, perché a lei vado a genio, piaccia o non piaccia a suo padre.»

«Sei un chiacchierone,» disse Len. «È l’unica cosa che sai fare, delle grandi chiacchiere e basta.»

«Starei zitto, se fossi in te,» disse Esaù, amaramente. «Se non fosse stato per te, non sarei mai partito da casa. Ci sarei anche adesso, forse avrei già tutta la fattoria, e una moglie, e dei bambini, se ne avessi voluto… non sarei un vagabondo che gira il paese alla ricerca di…»

«Silenzio!» ordinò perentoriamente Len.

«D’accordo, ma sai cosa voglio dire… e non so neppure dove andare a dormire, stanotte. Tu mi hai portato solo dei guai, Len, e adesso ne combini anche con la mia ragazza.»

Sopraffatto dall’indignazione, Len disse:

«Esaù, sei un maledetto, lurido bugiardo.»

Ed Esaù lo colpì.

Len si era infuriato a tal punto da dimenticare la sua posizione di guardia, e il colpo lo prese di sorpresa. Gli cadde il cappello, e sentì un intenso dolore allo zigomo. Respirò affannosamente, e avanzò verso Esaù. Si colpirono, e caddero avvinghiati sul molo, per qualche minuto, e d’un tratto Esaù disse:

«Smettila, smettila, sta arrivando qualcuno, e lo sai cosa ci aspetta, se scoprono che stiamo lottando di sabato.»

Si separarono, respirando affannosamente. Len raccolse il cappello, cercando di assumere un atteggiamento indifferente. Con la coda dell’occhio, vide che Mike Dulinsky e altri due uomini stavano arrivando sul molo.

«La finiremo più tardi,» bisbigliò a Esaù.

«Certo.»

Si misero da un lato. Dulinsky li riconobbe, e sorrise. Era un uomo grande e grosso, che tendeva alla pinguedine. Aveva degli occhi penetranti che parevano vedere ogni cosa, anche le cose più segrete, ma erano occhi freddi, che non si riscaldavano mai, neppure quando sorridevano. Len ammirava Mike Dulinsky, e lo rispettava. Ma non provava un affetto vero e proprio, per lui. I due uomini che lo accompagnavano erano Ames e Whinnery, entrambi proprietari di magazzini.

«Bene,» disse Dulinsky. «Siete venuti a dare un’occhiata al progetto?»

«Non proprio,» disse Len. «Noi… ehm… potremmo avere il permesso di dormire nell’ufficio, stanotte? Noi… noi non siamo più a pensione dai Taylor.»

«Oh?» disse Dulinsky, inarcando le sopracciglia. Ames fece un rumore ironico, che non era esattamente una risata. «Ma certo. Fate come se foste a casa vostra. Avete la chiave con voi? Bene. Venite, venite, signori.»

Si allontanò con Whinnery e Ames. Len raccolse il suo zaino, ed Esaù il suo fagotto, e s’incamminarono lungo il molo per raggiungere l’ufficio, un lungo capannone a due piani dove si svolgevano tutte le pratiche riguardanti i magazzini. Len aveva la chiave dell’ufficio, perché uno dei suoi compiti era quello di aprirlo, tutte le mattine. Mentre armeggiava intorno alla serratura, Esaù si voltò a guardare, e disse:

«Li ha accompagnati a vedere le fondamenta del magazzino. Non hanno l’aria troppo felice.»

Anche Len si voltò. Dulinsky stava agitando le braccia, e parlava animatamente, ma Ames e Whinnery sembravano preoccupati, e scuotevano ripetutamente il capo.

«Ci sarà bisogno di qualcosa di più di un discorso, per convincerli,» disse Esaù.

Len brontolò qualcosa, ed entrò. Pochi minuti più tardi, dopo avere riposto i pochi oggetti che possedevano in un armadietto vuoto, sentirono entrare qualcuno. Era Dulinsky, solo. Li fissò negli occhi, con espressione dura, e disse:

«Anche voi avete paura? Anche voi avete intenzione di voltarmi le spalle, e tagliare la corda?»

Non lasciò loro il tempo di rispondere, e indicò, con un breve cenno del capo, il molo, oltre la porta.

« Loro hanno paura. Anche loro vogliono costruire nuovi magazzini. Vogliono che Refuge cresca e li faccia diventare sempre più ricchi, ma non vogliono assumersi nessun rischio. Prima di agire, vogliono vedere che cosa succede a me. Bastardi. Ho tentato di convincerli che, se lavorassimo tutti uniti… Perché il giudice vi ha sbattuti fuori? È per causa mia?»

«Be’,» disse Len. «Sì.»

Esaù si voltò a fissarlo, sorpreso, ma non disse niente.

«Ho bisogno di voi,» disse Dulinsky. «Avrò bisogno di tutti gli uomini che potrò procurarmi. Spero che vogliate restare con me, ma non cercherò di trattenervi contro la vostra volontà. Se siete preoccupati, se avete paura, farete bene ad andarvene adesso.»

«Non so cosa ne pensi Len,» disse Esaù, sogghignando. «Ma io intendo restare.» Non pensava certamente ai magazzini, in quel momento.

Dulinsky si volse a fissare Len, che arrossì, e guardò il pavimento.

«Non lo so,» disse. «Non è che io abbia paura, ma può darsi che io voglia, semplicemente, abbandonare Refuge, e proseguire lungo il fiume.»

«Non dovrai pentirti di avere deciso di restare qui,» disse Dulinsky. «E non intendo forzarti.»

«Lo so che non intendete farlo,» disse Len, ostinato. «Ma desidero riflettere, prima di prendere una decisione, nell’uno o nell’altro senso.»

«Resta qui,» disse Dulinsky. «E diventerai ricco. Un mio bisnonno venne qui dalla Polonia, e non riuscì mai a diventare ricco perché tutto era già stato costruito. Ma ora c’è tutto da ricostruire, e il momento è quello giusto per ricominciare. Io intendo farlo, e diventare ricco. Lo so bene, quello che può averti detto il giudice. È un negativista. Ha paura di credere in qualcosa. Io no. Io credo nella grandezza di questo paese, e so che le catene arcaiche che ci tengono stretti devono essere spezzate, se questo paese dovrà di nuovo crescere. Le catene non si spezzeranno da sole. Qualcuno… uomini come me e come voi… dovrà farlo.»

«Sì, signore,» disse Len. «Ma desidero ugualmente riflettere.»

Dulinsky lo studiò per un attimo, e poi sorrise.

«Non ti convinci facilmente, vero? Non è una brutta cosa… Va bene, rifletti quanto vuoi.»

Poi se ne andò. Len guardò Esaù, ma la collera era scemata, ormai, e non se la sentiva di ricominciare la rissa. Disse:

«Vado a fare due passi.»

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