La branda di Esaù era intatta: nessuno l’aveva toccata. Len sollevò la coperta, piegandola con cura. Mise gli stivali di ricambio di Esaù sotto il bordo della branda, raccolse una camicia sporca e l’appese con cura a un chiodo. Poi accese la lampada, accanto al letto di Esaù, la regolò in modo che la fiammella ardesse al minimo, e la lasciò accesa. Poi uscì, lasciando la porta dell’ufficio chiusa a chiave.
Era molto tardi, quando rientrò nel recinto dei mercanti. Malgrado ciò, rimase per molto tempo seduto sul gradino della sua baracca, guardando la notte e pensando. Pensieri pieni di solitudine.
Al mattino, egli si fermò in ufficio, per prendere la lettera che Dulinsky aveva preparato per giustificare il suo viaggio a Shadwell, ed Esaù era là, con un volto così grigiastro, livido e vecchio che Len provò, quasi, un senso di compassione per lui.
«Cosa ti succede?» domandò.
Esaù rispose con una specie di brontolio minaccioso.
«Mi sembri spaventato a morte,» disse Len, deliberatamente. «Qualcuno ti ha minacciato, per il magazzino?»
«Bada agli affari tuoi, accidenti a te!» ringhiò Esaù, e Len sorrise interiormente. Che sudasse, che sudasse copiosamente. Certo si domandava chi fosse stato là, durante la notte, quando lui era stato dove non avrebbe dovuto essere. E si doveva tormentare, chiedendosi chi fosse al corrente… e quali fossero le sue intenzioni. La paura gli avrebbe fatto bene.
Scese al molo più vicino, e prese il traghetto, un grande battello piatto e massiccio con una specie di cassero che proteggeva il motore a vapore e la legna che lo alimentava. Una pioggia insistente, uggiosa, aveva cominciato a cadere, e la riva opposta era nascosta dalla nebbia. Un mercante diretto a sud, con un carico di lana e di pelli conciate, stava attraversando il fiume a sua volta. Len lo aiutò a guidare i cavalli, e poi sedette con lui sul carro, ricordando quali cose magiche fossero stati i carri quando lui era stato un ragazzo. La Fiera di Canfield pareva qualcosa di strano, lontana un milione di anni. Il mercante era un uomo magro, con una barba biondiccia, che gli ricordava molto Soames. Rabbrividì, e abbassò lo sguardo, fissando il fiume, là dove le acque lente e imperiose scorrevano eternamente verso occidente. Una lancia stava risalendo la corrente, a fatica, tra grandi spruzzi di schiuma. La lancia salutò con un ululato lamentoso della sirena il traghetto, e il traghetto rispose, e poi da oriente una terza voce parlò, e una processione di chiatte discese lentamente, a buona distanza da loro, chiatte cariche di carbone che scintillava lucido e nero sotto la pioggia.
Shadwell era un centro piccolo, e nuovo, e primitivo, in un certo senso, e cresceva così in fretta che dovunque si girasse lo sguardo si vedevano degli edifici in costruzione. Il porto era tutto un ronzio di attività, e su una collinetta, dietro i moli, la grande casa di Shadwell se ne stava torva, a guardare lo scenario con i suoi occhi di vetro.
Len s’incamminò lentamente verso l’ufficio del magazzino al quale era destinata la sua lettera. Molti degli uomini che avrebbero dovuto essere impegnati nelle costruzioni, quel mattino, non erano al lavoro, a causa della pioggia. C’era una piccola squadra di operai, riunita sul portico di un negozio. Len ebbe l’impressione di venire osservato con troppa attenzione, ma probabilmente questo era dovuto al fatto che lui era uno straniero disceso dal traghetto. Entrò nell’ufficio, e consegnò la lettera a un ometto piccolo e anziano che si chiamava Gerrit, che la lesse frettolosamente e poi squadrò Len, come se fosse stato un animale viscido, uscito strisciando dalla fanghiglia delle acque basse della riva.
«Potete dire a Mike Dulinsky,» disse, «Che io seguo le parole del Buon Libro, che mi proibiscono di avere commercio con gli uomini empi e gli operatori d’iniquità. E in quanto a voi, vi suggerisco di fare lo stesso. Ma voi siete giovane, e i giovani sono sempre amici del peccato, così non sprecherò il fiato. Andatevene».
Gettò la lettera in un cestino dei rifiuti, e voltò le spalle a Len. Len si strinse nelle spalle, e uscì dall’ufficio. Attraversò la piazza fangosa, diretto al recinto dei mercanti. Uno degli uomini, sotto il portico del negozio, scese i gradini, e con aria distratta si avvicinò all’ufficio di Gerrit. Stava piovendo più forte, ora, e rivoletti di acqua giallastra scorrevano dappertutto sul terreno nudo.
C’erano moltissimi carri nel recinto, ma nessuno di loro portava sul tendone il nome di Hostetter. Quasi tutti gli uomini erano al riparo, a causa della pioggia. Non vide nessuno che conosceva, e nessuno gli rivolse la parola. Dopo qualche tempo, voltò le spalle ai carri, e tornò indietro.
La piazza era piena di uomini. Erano in piedi sotto la pioggia, e l’acqua gialla e fangosa si muoveva intorno ai loro stivali, ma a loro pareva indifferente. Tutti guardavano dalla stessa parte… tutti guardavano Len.
Uno di loro disse:
«Voi siete di Refuge».
Len annuì.
«Lavorate per Dulinsky».
Len si strinse nelle spalle, e fece per passare oltre.
Altri due uomini si misero ai suoi fianchi, e gli afferrarono le braccia. Lui cercò di liberarsi, ma essi lo tennero stretto, uno da ciascun lato, e quando cercò di divincolarsi scalciando, gli bloccarono anche le gambe.
Il primo uomo disse:
«Abbiamo un messaggio per Refuge. Potete riferirlo voi. Non lasceremo che prendano ciò che è nostro di diritto. Se non ci penseranno loro a fermare Dulinsky, lo fermeremo noi. Siete capace di ricordare il messaggio?»
Len lo guardò freddamente, ma era spaventato. Non disse niente.
«Fateglielo ricordare, ragazzi,» disse il primo uomo.
I due uomini che lo tenevano stretto furono raggiunti da altri due. Insieme, costrinsero Len ad abbassarsi, con il viso nel fango. Lui si rialzò, e quando fu di nuovo sulle mani e sulle ginocchia, essi lo colpirono con calci precisi, freddi e violenti, gettandolo di nuovo nel fango, poi afferrandolo per le braccia e costringendolo a girarsi. Poi qualcun altro lo prese, e un altro, e un altro ancora, sballottandolo e colpendolo per tutta la piazza, in un silenzio innaturale, rotto soltanto da grugniti dovuti allo sforzo: nessuno gli fece veramente male, ma nessuno gli diede la possibilità di reagire. Quando ebbero finito, se ne andarono, e lo lasciarono, stordito e ansante, seduto nel fango, con la bocca piena di fango e di acqua. Riuscì a rimettersi in piedi, allora, e si guardò intorno, ma ora la piazza era deserta. Scese al traghetto, e salì a bordo, benché la partenza fosse ancora lontana. Era fradicio e intirizzito, e tremava, anche se non avvertiva un vero e proprio senso di freddo.
Il capitano del traghetto era nato a Refuge. Aiutò Len a pulirsi, e gli diede una coperta, prendendola dalle proprie provviste. Poi Len guardò le strade di Shadwell.
«Li ammazzo,» disse Len. «Giuro che li ammazzo.»
«Certo,» disse il capitano del traghetto. «E vi dirò una cosa. Sarà meglio che non vengano a Refuge a provocare guai, altrimenti si accorgeranno che cosa significa andare in cerca di guai».
Nel primo pomeriggio la pioggia cessò di cadere, e alle cinque, quando il traghetto si ormeggiò di nuovo a Refuge, il cielo si stava già rasserenando. Len andò subito da Dulinsky, a raccontare quello che era accaduto, e Dulinsky assunse un’espressione grave e scosse il capo.
«Mi dispiace, Len,» disse. «Avrei dovuto saperlo. Non avrei dovuto permetterti di fare questo».
«Ebbene,» disse Len, «Non mi hanno fatto alcun male, in realtà, e adesso voi sapete come stanno le cose. Certamente verranno qui, all’adunanza. Potete scommetterci».
Dulinsky annuì. I suoi occhi cominciarono a brillare, di quella sua fiamma fredda, e poi egli si fregò le mani.
«Forse è quello che volevamo,» disse. «Presto, va’ a cambiarti e a mangiare qualcosa. Ci vediamo dopo».
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