Lanterne e torce ardevano, tutt’intorno, per illuminare la scena. Gli uomini stavano portando fuori dalle stalle i loro cavalli, e li attaccavano ai carri, e si affrettavano a riempire i carri di merci, e tutti parevano sul punto di partire. Len rimase a guardare la scena per un paio di minuti, incredulo, e tutto il senso di trionfo e di eccitazione lo abbandonò. Si sentiva stanco, e il naso gli faceva male.
Vide Fisher, e si avvicinò a lui, e tenne fermi i primi cavalli, mentre il mercante lavorava.
«Perché ve ne andate tutti?» domandò.
Fisher gli diede un’occhiata dura e severa, di sotto la tesa del suo cappello piatto.
«I contadini se ne sono andati, pieni di intenti bellicosi,» disse. «Ritorneranno e porteranno guai, e noi non vogliamo aspettare».
Si assicurò che tutto fosse in ordine, e salì a cassetta. Len si scostò, e Fisher lo guardò dall’alto, e c’era qualcosa, nei suoi occhi, che gli ricordava lo sguardo di papà, di tanto, tanto tempo prima.
«Avevo un’opinione migliore di te, Len Colter,» disse Fischer. «Ma coloro che prendono una brace ardente verranno bruciati. Che il Signore abbia misericordia di te!»
Agitò le redini, e gridò ai cavalli, e il suo carro cigolò e si mosse, e anche gli altri carri si mossero, e Len rimase solo a seguirli con lo sguardo.
Le due del pomeriggio di una giornata calda e soffocante. Gli uomini stavano mettendo le tavole sui lati settentrionale e orientale del capannone, lavorando all’ombra. Refuge era calma, così calma che il suono dei martelli risuonava come le campane nel mattino del sabato. Quasi tutte le barche se ne erano andate dai moli, e le banchine erano deserte.
Esaù disse:
«Pensi che verranno?»
«Non lo so». Len osservò i tetti lontani di Shadwell, dall’altra parte del fiume, e scrutò su e giù per l’ampia distesa delle acque. Neppure lui sapeva esattamente cosa cercasse: Hostetter, un volto conosciuto, qualcosa, qualsiasi cosa per spezzare quel senso di vuoto e di attesa. Per tutta la mattinata, dall’alba, carri pieni di donne e bambini avevano lasciato il paese, e c’erano stati anche degli uomini, sui carri, e molti fagotti che contenevano le proprietà delle famiglie.
«Non faranno niente,» disse Esaù. «Non oseranno».
La sua voce non era convinta. Len lo scrutò, e vide che aveva il volto teso e nervoso. Erano in piedi, sulla porta dell’ufficio, e non facevano niente, respiravano soltanto il calore soffocante e il silenzio. Dulinsky era andato in paese, e Len disse:
«Vorrei che fosse già di ritorno».
«Ci sono degli uomini sulle strade, di guardia. Se ci fossero delle notizie, saremmo i primi a saperle».
«Sì,» disse Len. «Credo di sì».
I martelli producevano un suono insistente, aspro, sul legno giallo e fresco. Ai margini del magazzino, tra gli alberi che circondavano il perimetro di costruzione, diversi uomini oziavano, e osservavano. Altri uomini erano sui moli, inquieti, nervosi, raccolti a gruppetti per parlare un poco, gruppetti che poi si scioglievano e si ricomponevano in un gioco continuo, gente che andava avanti e indietro senza sapere esattamente che fare. Tutti lanciavano delle occhiate furtive in direzione dell’ufficio, e soprattutto di Len e di Esaù che stavano in piedi sulla soglia, e tutti guardavano gli operai che lavoravano al magazzino, ma nessuno si avvicinava e tentava di conversare. Questo non piaceva affatto a Len. Gli dava l’impressione di essere molto solo e molto ingombrante, e lo preoccupava, poiché gli pareva di sentire il dubbio e l’incertezza e l’apprensione di quegli uomini, uomini che si erano posti contro qualcosa di nuovo e non sapevano che cosa fare. Di quando in quando delle borracce venivano passate di mano in mano, ma questo accadeva raramente, e solo uno o due uomini erano vistosamente ubriachi.
Impulsivamente, Len salì sul molo, e gridò a un gruppo di uomini che stavano intorno a un albero a discutere:
«Che notizie ci sono dal paese?»
Uno di loro scosse il capo.
«Ancora niente».
Si trattava di uno di coloro che avevano gridato con maggiore vigore il nome di Dulinsky, durante il trionfo della notte, ma ora il suo volto non mostrava più alcun entusiasmo. Improvvisamente si curvò, e raccolse un sasso, e lo gettò contro un gruppetto di ragazzi che attendevano in disparte, evidentemente desiderosi di assistere a qualcosa di spettacolare.
«Via!» gridò. «Non è un gioco per divertirvi, questo. Filate!»
Se ne andarono, ma non troppo lontano. Len ritornò sulla porta dell’ufficio. Era un caldo soffocante, l’aria era immobile, pesante. Esaù si mosse, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Len».
«Cosa vuoi?»
«Cosa faremo, se vengono?»
«Come faccio a saperlo? Dovremo combattere, suppongo. Vedremo quel che accadrà. Come faccio a saperlo?»
«Be’, io so una cosa,» disse Esaù, con aria di sfida. «Non ho intenzione di rompermi il collo per Dulinsky. All’inferno anche lui».
«Va bene, prova a escogitare qualcosa». C’era un senso di collera, ora, che pervadeva Len, una cosa ancora vaga e indistinta, priva di una direzione precisa, ma sufficiente a renderlo nervoso e impaziente. Forse era perché lui aveva paura, e la paura lo mandava in collera. Ma sapeva qual era il corso dei pensieri di Esaù, e non voleva che l’altro li esponesse a voce alta.
«Ci puoi scommettere,» disse Esaù. «Sì, ci puoi scommettere. Il magazzino è suo, non mio. Che sia lui a combattere per difenderlo. Lui non rischierebbe certamente la pelle per difendere qualcosa di mio. Io…»
«Zitto,» disse Len. «Guarda».
Il giudice Taylor si stava avvicinando, lungo i moli. Esaù imprecò, nervosamente, e scivolò all’interno dell’ufficio, per non farsi vedere. Len aspettò, consapevole dello sguardo di tutti gli uomini fisso su di lui, come se quanto stava per accadere fosse stato di grande importanza.
Taylor venne alla porta, e si fermò.
«Di’ a Mike che voglio vederlo,» disse.
Len rispose:
«Non è qui».
Il giudice lo studiò, cercando di capire se Len gli avesse detto o no la verità. Il suo volto era livido, e gli occhi erano stranamente duri e febbricitanti.
«Sono venuto,» disse, «Per offrire a Mike l’ultima opportunità».
«È in paese, da qualche parte,» disse Len. «Forse potrete trovarlo là».
Taylor scosse il capo.
«È la volontà del Signore,» disse, e si voltò, e se ne andò. Giunto all’angolo dell’ufficio, si fermò di nuovo, e disse, «Ti avevo avvertito, Len. Ma non esiste peggior cieco di colui che non vuole vedere».
«Aspettate!» disse Len. In due passi raggiunse il giudice, e lo guardò negli occhi, e rabbrividì, «Voi sapete qualcosa. Di che si tratta?»
«La volontà del Signore,» disse il giudice, «Ti verrà rivelata quando verrà il momento».
Len si avvicinò ancora, e lo afferrò per il colletto del suo bellissimo abito, e lo scosse:
«Parlate per voi, giudice!» disse, irato. «Il Signore deve essere nauseato di vedere che tutti si nascondono dietro di Lui! Non succede niente, in questo paese, senza che voi ci mettiate lo zampino. Cosa c’è, adesso?»
Un po’ del fuoco ipocrita che aveva invaso gli occhi del giudice si spense. Egli abbassò lo sguardo, scandalizzato, incredulo che Len lo avesse preso per la giacca così rudemente. Len lo lasciò andare.
«Mi dispiace,» disse. «Ma io voglio sapere».
«Sì,» disse a bassa voce il giudice Taylor. «Sì, tu vuoi sapere. È stato sempre questo il tuo guaio. Non ti dissi io stesso di trovare il tuo limite, prima che fosse troppo tardi?»
Il suo volto si addolcì, divenne gentile, pieno di autentico dispiacere.
«È un peccato, Len. È un vero peccato. Avrei potuto volerti bene come a un figlio».
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