Dopo qualche tempo, la scostò un poco da sé, e disse:
«E ora chi preferisci?» Stava tremando, ma sulle guance di Amity c’era solo un lieve rossore, e lo sguardo di lei era piuttosto calmo. Gli sorrise.
«Non lo so,» disse lei. «Dovrai riprovare…»
«È questo che hai detto a Esaù?»
«Che t’importa sapere quello che ho detto a Esaù?» Di nuovo, la treccia bionda dondolò sulla sua schiena. «Pensa agli affari tuoi, Len Colter.»
«Questi potrebbero essere affari miei.»
«Chi l’ha detto?»
«L’ha detto tuo padre, se proprio ci tieni a saperlo.»
«Oh,» disse Amity. «L’ha detto lui.» Improvvisamente, fu come se una pesante cortina fosse calata a dividerli. Lei indietreggiò, e la sua bocca s’indurì.
«Amity,» le disse. «Ascolta, Amity, io…»
«Tu lasciami in pace. Hai capito, Len?»
«Cosa c’è di diverso, adesso? Prima mi sembravi così ansiosa… in tutti questi mesi, e pochi minuti fa…»
«Ansiosa! È tutto quello che sai. E se pensi di poterti permettere, solo per il fatto di avere circuito mio padre dietro le mie spalle, di…»
«Non ho circuito nessuno, Amity! Ascolta!» La prese di nuovo, l’attirò a sé.
Lei sibilò, tra i denti:
«Lasciami andare, non appartengo a te, non appartengo a nessuno! Lasciami andare…»
Lui continuò a stringerla, lottando contro di lei. La sua ribellione lo eccitava, e rise, e chinò il capo per baciarla di nuovo.
«Amity, andiamo, io ti amo…»
Lei soffiò come una gatta, e gli graffiò la guancia. La lasciò andare, allora, e Amity non era più così bella, il suo volto era contratto, brutto, e i suoi occhi cattivi. Lei corse via, lungo il sentiero. L’aria era tiepida e il profumo delle rose era intenso, intorno a lui. Per qualche tempo rimase immobile, guardando il sentiero lungo il viale era fuggita, e poi ritornò lentamente nella casa, e nella camera che divideva con Esaù.
Esaù era sdraiato sul letto, semiaddormentato. Si limitò a grugnire, e a girarsi sul fianco, quando Len entrò nella stanza. Len aprì lo sportello dell’armadietto. Ne prese un piccolo zaino di tela robusta, e cominciò a riporvi le sue cose, metodicamente, infilando ogni oggetto nello zaino con forza eccessiva. Era rosso in viso, e la sua espressione era cupa e accigliata.
Esaù si girò di nuovo. Batté le palpebre, guardò Len, e disse:
«Cosa credi di fare?»
«Sto facendo i bagagli.»
«I bagagli!» Esaù si drizzò a sedere sul letto, completamente sveglio. «Perché?»
«Perché la gente di solito fa i bagagli? Me ne vado.»
Esaù mise un piede sul pavimento.
«Sei diventato matto? Cosa vuoi dire… così, semplicemente, vuoi andartene? Credi che io non abbia qualcosa da dire, eh?»
«No, non hai niente da dire, su questo, almeno. Tu puoi fare quello che vuoi. Spostati, voglio quegli stivali.»
«Va bene! Ma tu non puoi… aspetta un momento! Cos’hai sulla guancia?»
«Cosa?» Len si passò il dorso della mano sulla guancia. La ritirò con una macchiolina rossa. Amity lo aveva graffiato profondamente.
Esaù cominciò a ridere.
Len si rialzò.
«Cosa c’è di tanto buffo?»
«Finalmente ti ha dato il fatto tuo, eh? Oh, non raccontarmi che è stato il gatto a graffiarti. So riconoscere i graffi di un gatto. Bene. Ti avevo detto di tenerti lontano da lei, ma non mi hai voluto ascoltare. Io…»
«Credi che lei ti appartenga?» domandò Len, a bassa voce.
Esaù sorrise.
«Avrei potuto dirti anche questo.»
Len lo colpì. Era la prima volta in vita sua che colpiva qualcuno con autentica collera. Vide che Esaù cadeva all’indietro sul letto, con gli occhi spalancati per la sorpresa, e una sottile striscia rossa che gli usciva dall’angolo della bocca, e tutto parve accadere molto lentamente, dandogli tutto il tempo per sentirsi colpevole e confuso e riempirlo di pentimento. Gli pareva di avere colpito un fratello. Ma era ancora in collera. Sollevò lo zaino, e si avviò alla porta, ed Esaù balzò dal letto, e lo afferrò per la spalla, costringendolo a girarsi.
«Mi hai picchiato, eh? Avanti, riprovaci!» disse, ansando. «Ti sei azzardato a farlo, sporco…» insultò Len con un epiteto che aveva appreso tra gli scaricatori dei moli, e agitò il pugno, con violenza.
Il pugno di Esaù partì, e Len fu lesto ad abbassarsi. Le nocche di Esaù gli sfiorarono il viso, e colpirono il legno solido della porta. Esaù gettò un grido di dolore, e cominciò a saltellare per la stanza, tenendo la mano sotto l’altro braccio, e imprecando. Len fece per dire qualche parola, per esprimere il suo dispiacere, ma cambiò idea, e si voltò di nuovo, pronto ad andarsene.
E il giudice Taylor era là fuori, nel corridoio.
«Smettila,» disse a Esaù, ed Esaù smise di lamentarsi, immobilizzandosi al centro della stanza. Taylor guardò i due giovani, e il suo sguardo indugiò sullo zaino che Len aveva in mano. «Ho parlato adesso con Amity,» disse, e Len capì che, dietro i suoi modi austeri, il giudice Taylor ribolliva di collera. «Mi dispiace molto, Len. A quanto sembra, ho commesso un errore.»
«Sì, signore,» disse Len. «Me ne stavo andando.»
Taylor annuì.
«In ogni modo,» disse, «Quanto ti ho detto è vero. Ricordalo.» Fissò poi, duramente, Esaù.
«Lasciatelo andare,» disse Esaù. «Io non mi muovo.»
«Io penso di sì,» disse Taylor.
«Ma lui…»
«L’ho colpito io per primo,» disse Len.
«Questo non ha importanza,» disse il giudice. «Raccogli le tue cose, Esaù.»
«Ma perché? Io guadagno abbastanza per pagare l’affitto. Non ho fatto niente…»
«Non so ancora esattamente ciò che hai fatto, ma molto o poco che sia, ora è finito. Questa stanza non è più da affittare. E se ti sorprendo di nuovo a ronzare intorno a mia figlia, ti farò cacciare da questa comunità. È chiaro?»
Esaù lo guardò, furioso, ma non disse niente. Cominciò ad ammucchiare le sue cose sul letto. Len uscì, passando davanti al giudice, percorse il corridoio, e scese le scale. Uscì dalla porta posteriore, e passando davanti alla cucina riuscì a vedere, attraverso la porta socchiusa, Amity curva sul tavolo, che singhiozzava disperatamente, e la signora Taylor che la fissava con un’espressione inorridita e strana, con una mano alzata, come se avesse voluto accarezzarla sulla spalla, ma si fosse improvvisamente fermata a metà e avesse dimenticato il gesto.
Len uscì dal cancello posteriore, evitando accuratamente il roseto.
Il sabato era una coltre silenziosa e pesante sulla comunità. Len percorse i vicoli, camminando frettoloso nella polvere. Non aveva idea di dove stesse andando, ma l’abitudine e la conformazione generale di Refuge lo portarono al fiume, e sui moli, là dove i quattro grandi magazzini di Dulinsky erano allineati. Si fermò là, incerto e imbronciato, e solo allora cominciò a comprendere che la situazione era cambiata radicalmente, per lui, nel giro di pochi minuti.
Il fiume scorreva verde come vetro di bottiglia, e tra gli alberi dell’altra riva i tetti di Shadwell scintillavano sotto il sole caldo. C’erano diversi battelli fluviali ormeggiati al molo. Gli uomini di quei battelli erano in città, o dormivano sottocoperta. Niente si muoveva, all’infuori del fiume, e delle nubi, e di un gattino che si divertiva a giocare da solo sul ponte di uno dei battelli. Alla sua destra, più avanti, c’era il grande rettangolo spoglio là dove sarebbe sorto il nuovo magazzino. Le fondamenta erano già state gettate. Tronchi e assi erano disposti in grandi pile precise, e c’era una segheria, sotto la quale si vedeva una montagnetta di segatura gialla. Due uomini, distanti tra loro, se ne stavano a oziare all’ombra. Len corrugò la fronte. Lo guardavano, come se fossero stati di guardia.
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