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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Porse a Len la sua giubba.

«Ecco, puoi indossarla di nuovo. E ora va’ nei campi, e guardati attorno, e pensa a ciò che vedi, e domanda al Signore il dono più grande che Egli può darti, un cuore contento. E vorrei che tu pensassi all’uomo che hai visto morire come a un segno che ti è stato mandato per ricordarti il prezzo della follia, che è uguale a quello del peccato.»

Len indossò la giubba. Annuì, e sorrise a papà, con molto amore.

Papà disse ancora:

«Un’ultima cosa. Esaù ti ha spinto ad andare a quella predica.»

«Non ho detto…»

«Non ti ho fatto una domanda, ho fatto solo una constatazione. Conosco te e conosco Esaù. Ora ti dirò una cosa, e tu non dovrai ripeterla. Esaù è testardo, e si fa un punto d’orgoglio di essere ribelle in qualunque circostanza, credendo di dimostrarsi furbo. È nato per mettersi nei guai, come le scintille nascono per salire nella cappa del focolare, e non voglio che tu stia alle sue calcagna come un cucciolotto fedele. Se questo accadrà di nuovo, ti darò una battuta come non te la sei mai sognata. Hai capito?»

«Sissignore!»

«Allora vai.»

Len non se lo fece dire due volte. Filò dalla porta dell’aia come una freccia. Scavalcò il cancello, attraversò la carreggiata, e si addentrò nel campo occidentale, muovendosi ora con calma, con la testa china, e i pensieri che giravano e giravano e giravano nella sua testa, fino a stordirlo.

Il giorno prima gli uomini avevano tagliato il grano, e i lunghi falcetti avevano fatto whick-whick! sugli steli fruscianti, e i ragazzi avevano riunito i covoni. La mietitura era una delle cose che Lan amava di più. Tutti si riunivano e aiutavano tutti gli altri, e c’era un senso di eccitazione, un senso di vittoria finale nella lunga battaglia iniziata nel giorno della semina, l’idea di prepararsi a trascorrere l’inverno ben riforniti e in pace, qualcosa che era giusto e naturale come il cadere delle foglie e i preparativi degli scoiattoli. Len camminava lentamente, tra le file di stoppie e di alti covoni, e odorò il sole tra il grano seccato, e ascoltò i corvi che gracchiavano da qualche parte, al limitare del bosco, e allora i colori degli alberi cominciarono a giungergli. D’un tratto si rese conto che tutta la campagna era un incendio di bellezza pura, un falò di fuoco frusciante e vivo, e camminò lentamente verso i boschi, tenendo alta la testa, per vedere le creste di porpora e oro contro il cielo. C’era una macchia di sommacchi ai bordi del campo, così trionfalmente scarlatti da fargli chiudere gli occhi. Si fermò davanti a quello splendore, e si volse a guardare indietro.

Di là poteva vedere quasi tutta la fattoria, il preciso disegno dei campi, le staccionate ben curate che si stendevano serpentine a contornarli, le costruzioni raggruppate, dai tetti solidi e perfetti, colorati dalle stagioni e dagli anni di una patina grigio-argentea che scintillava nel sole. Le pecore brucavano placidamente sui pascoli alti, e in quelli più bassi c’erano le mucche, la cavalla da tiro, e i grandi cavalli dai forti muscoli, tutti lustro e grasso. Il fienile e il granaio erano pieni. La cantina degli ortaggi era ben rifornita di tuberi saporiti, la cantina della casa era piena di formaggi e di otri, di pancetta e di strutto, e di prosciutti appena affumicati, e avevano preso tutto quel ben di Dio dalla terra, con le loro mani, con il loro lavoro. Una sensazione di calore cominciò a pervadere Len, e insieme a essa venne un amore appassionato, inesprimibile per il posto che stava guardando, i campi e la casa, il fienile, i boschi, il cielo. Capiva bene, ora, che cosa aveva voluto dirgli suo padre. Questo era buono, e Dio era buono. Capì che cosa intendeva dire papà, parlando di cuore contento. Cominciò a pregare. Quando ebbe finito di pregare si voltò, e si addentrò tra gli alberi.

Vi era stato tante volte che si era formato uno stretto sentiero battuto attraverso il bosco. Ora il passo di Len era leggero, e la sua testa era alta. Il largo cappello s’impigliava tra i rami più bassi, ed egli se lo tolse. Ben presto si tolse anche la giubba. Il sentiero procedeva vicino a una pista lasciata dai cervi. Diverse volte Len si curvò a vedere se non ci fosse qualche traccia recente, e quando attraversò una radura dall’erba alta e folta poté vedere le depressioni rotonde d’erba schiacciata, là dove i cervi avevano riposato.

Pochi minuti più tardi giunse in una lunga radura. La boscaglia si faceva più rada, ricacciata via dai grandi, maestosi aceri che crescevano in quel luogo. Len si mise a sedere, arrotolando la giubba, e poi si distese sulla schiena con la giubba sotto la testa, e guardò in alto, tra il fogliame degli alberi. I rami formavano un mutevole disegno d’ombra, che racchiudeva una nube di foglie dorate, e sopra di essi il cielo era così azzurro e profondo e quieto che pareva facile tuffarsi in esso, e lasciarsi cullare dal suo tepore. Di quando in quando, una breve pioggia di foglie dorate scendeva dai rami, veleggiando lentamente nell’aria quieta, uno sfarfallare pigro e colorato che rischiarava le ombre della radura. Len meditava, ma i suoi pensieri non avevano più una forma precisa. Per la prima volta, dalla notte della predica, erano pensieri semplici e lieti. Dopo qualche tempo, pervaso da un senso di pace totale, scivolò nel torpore del dormiveglia. E poi, d’un tratto, si rizzò a sedere di scatto, con il cuore che batteva forte, e il sudore improvviso sulla fronte.

C’era un rumore nei boschi.

Non era un rumore giusto , come quelli prodotti da un animale, o da un uccello, o dal vento, o dai rami degli alberi. Era uno scoppiettio e un sibilo e uno sfrigolio, tutti mescolati, e nel bel mezzo di quella strana confusione venne un improvviso rombo. Non fu forte, pareva sottile e lontano, eppure pareva venire da vicino. Improvvisamente il rumore finì, come se fosse stato troncato di netto dalla lama di un coltello.

Len rimase immobile, tendendo l’orecchio.

Il rumore si udì di nuovo, ma debolissimo, ora, furtivo, e si mescolava al fruscio prodotto dalla brezza tra i rami più alti degli alberi. Len si mise a sedere, e si tolse le scarpe. Poi avanzò, scalzo e silenzioso, sul tappeto di muschio e d’erba, all’estremità della radura, e poi, cercando di procedere nel modo più silenzioso possibile, avanzò lungo il letto asciutto di un torrentello, fino a quando la boscaglia non si diradò di nuovo in un boschetto di noci. Attraversò il boschetto, s’immerse in una macchia di stramoni, e avanzò carponi, fino a quando non poté guardare dall’altra parte. Il suono non era aumentato d’intensità, ma era più vicino. Molto più vicino.

Oltre gli stramoni c’era un pendio erboso, un prato dove le viole crescevano numerose in primavera. Era un pendio a forma di cuneo, proprio dove il fiume che dava il nome al villaggio si gettava nel lento e limaccioso Pymatuning. C’era un grande albero che sporgeva i suoi rami sul fiume, all’estremità, con metà delle radici esposte dall’erosione del terreno a causa delle molte piene del corso d’acqua. Era il luogo più segreto che si poteva trovare in un pomeriggio di sabato in ottobre, proprio nel cuore dei boschi, nel punto più lontano dalle fattorie che si trovavano su entrambe le rive del fiume.

Esaù era là. Sedeva curvo su un tronco caduto, e il rumore veniva da qualcosa che lui teneva tra le mani.

4.

Len uscì dagli stramoni. Esaù balzò in piedi, impaurito, con aria vistosamente colpevole. Cercò di correre via, e di nascondere l’oggetto dietro la schiena, e di schivare un colpo improvviso, tutto nello stesso tempo, e quando vide che si trattava solo di Len cadde di nuovo a sedere sul tronco, come se le gambe gli si fossero piegate sotto il corpo.

«Perché hai fatto una cosa simile?» domandò, a denti stretti. «Credevo che fosse mio padre.»

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