Robert Wilson - Memorie di domani

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Per cercare una via di scampo a un tragico passato, Raymond Keller acconsente a diventare un Occhio, ovvero un volontario che accetta di farsi impiantare nel cervello un perfetto impianto di registrazione. In tal caso non potrà più guardare dove vorrà, ma solo dove è necessario per vedere, registrare, documentare. E così dimentica il proprio passato, il presente, il futuro. Finché incontra Teresa, la meravigliosa ragazza che è anche una splendida artista. Una donna preda delle violente allucinazioni indotte dai gioielli sognanti seminati in epoche remote da una razza di extraterrestri, e che hanno proprietà ancora non completamente esplorate dalla razza umana. Occorre qualcuno che abbia rinunciato a sé per poter penetrare un segreto tra i meglio custoditi dell’universo.

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Le capitava a volte, nei momenti di lucidità, di notare un certo deterioramento. Lo percepiva come un cambiamento, non in se stessa, ma nell’ambiente che la circondava. Il suo studio le sembrava di colpo più piccolo; be’, sì, si era trasferita scegliendo la sistemazione più economica, per risparmiare sull’affitto. La sua immagine allo specchio era diventata più scarna, ma era colpa delle economie sul vitto, necessarie per far durare il denaro un po’ più a lungo. La situazione peggiorò in modo così graduale che non sembrò succedere assolutamente nulla, finché Teresa non si ritrovò sola nell’angolo di una vecchia stazione di servizio, con un materasso lurido e una ciotola piena di pillole. Una ciotola di felicità.

Sapeva che si stava uccidendo. L’idea della propria morte si insinuò nella sua mente con tanta facilità da sembrare alla fine inevitabile e familiare. , pensava, sto morendo. Eppure, morire in stato di grazia le sembrava meglio che vivere in una condizione di persistente angoscia. Forse era una specie di conto in sospeso che doveva pagare. Forse sarebbe stato meglio morire nel grande incendio.

Ma l’anoressia e la denutrizione l’avevano fatta ammalare, i gomiti e le ginocchia le facevano male ed era quasi sempre febbricitante. Tornò a cercare sollievo nelle pillole rosa e gialle, e le aggiunse alla sua dieta ormai esclusivamente chimica. La combinazione l’aiutò per un certo periodo, ma a lungo andare il dolore fisico si ripresentò. A quel punto avrebbe accolto come un sollievo anche la morte, il suo corpo ormai distrutto quasi la implorava, ma lei non seppe mai decidersi a tentare il suicidio. Era come strisciare verso la morte senza poterla però affrontare direttamente. Se l’avesse guardata in faccia, qualcosa dentro di lei l’avrebbe riconosciuta, si sarebbe ribellato, le avrebbe impedito di compiere il grande salto. La frustrazione era disperante.

Conosceva Byron Ostler solo vagamente: apparteneva a quella cerchia di amici che ormai si era assottigliata. Lui non era un artista, ma commerciava in pietre esotiche. Ormai afflitta dal dolore costante, con la paura di prendere una dose esagerata di pillole, Teresa riconsiderò l’idea di usare le pietre dei sogni. Producevano delle visioni, dicevano i suoi amici artisti. Be’, lei non desiderava visioni, dal momento che ne aveva già anche troppe per conto suo. Ma le visioni, almeno, potevano scacciare il demone dell’angoscia. Valeva la pena di tentare.

Si sforzò di non far caso alla pietà che traspariva dal viso di quell’irsuto veterano in tuta consunta, quando andò a parlargli. Gli tese la mano con il denaro. Ormai gliene rimaneva ben poco. Ma lui non volle prenderlo. Sbatté le palpebre dietro gli occhiali a forma di luna piena e le regalò la pietra. Era piccola, di un colore azzurro pallido e dalla forma strana. Quando lei la prese, senza aspettarsi nulla, sentì la mano vibrare. — Fallo qui — le disse lui.

— Che cosa?

— Consideralo un favore personale — ripeté lui. — Fallo qui.

La visione fu intensa. Rimase in trance solo per un paio d’ore, riferì Byron, ma a lei sembrò un tempo infinito. Teresa vide, come pezzi di un mosaico, le immagini dal mondo lontano degli stranieri alati. Danzò come un turbine attraverso la storia. Stranamente, per quanto ci fossero miseria, dolore e sofferenza in ciò che vedeva, lei ne ricavò una certa forza. Era il vigore delle immagini a rianimarla, pensò. Quel fiume di vita, intrecciato in una doppia spirale, all’infinito.

Vide anche, per la prima volta, la bambina che avrebbe occupato in futuro tanta parte dei suoi sogni.

Indossava stracci al posto dei vestiti e scarpe da tennis legate con lo spago. — Devi cercarmi — le diceva in tono solenne. — Devi trovarmi. — E Teresa scoprì che quell’imperativo era dentro di lei, e forse c’era stato per tutto quel tempo. Sì, doveva trovarla.

Byron mise in moto la sua motolancia e la riportò nello studio nella zona sud della Città. Non era uno studio. Ora lo vedeva chiaramente. Era un angolo sordido in un edificio abbandonato. Teresa guardò la ciotola piena di pillole, con aria sgomenta.

— Posso chiamarti un dottore — disse Byron.

Lei si strinse nelle spalle. Stava morendo, ed era rassegnata ad accettarlo. Lo disse a Byron, ma proprio mentre lo diceva, sentì gonfiarsi dentro di sé un’inaspettata riluttanza. — Voglio usare ancora la pietra — mormorò.

— Allora lasciami portare qui un dottore. E del cibo. — Byron si guardò intorno. — E forse sarà meglio che ripulisca un po’ questo posto. Cristo, è un cesso.

Lei acconsentì.

Il recupero fu molto duro. Il medico che Byron portò da lei era un rifugiato MD, che le iniettò subito delle vitamine e mise sotto controllo i suoi neuropeptidi con un monitor tascabile. Dopo, Byron la persuase a mangiare qualcosa.

La salute fu quasi un trauma. Il mondo le sembrò tinto da colori più vividi e persino il cibo ebbe un gusto migliore. Teresa ricominciò a lavorare. Con il denaro guadagnato, trovò una sistemazione più vicina a Byron. Cominciò a fare lunghe passeggiate fino al margine della darsena per guardare le nuvole che venivano dal mare. Non aveva smesso di desiderare le pillole, e il medico le disse che, probabilmente, la voglia le sarebbe rimasta per sempre, dato che era ormai impressa in modo indelebile nel suo organismo. Ma le pietre esotiche sembravano attenuare il desiderio. Teresa non capiva molto di ciò che vedeva in trance, ma tentò di riprodurre alcune immagini nel suo lavoro. Così, eseguì il primo dipinto su cristallo, un luminoso paesaggio alieno.

Sapeva che Byron si era innamorato di lei. E sapeva anche che lei non lo amava.

Per un certo periodo ci provò. Andò a vivere con lui, e fecero l’amore con tenerezza, se non con passione. Ma era un esperimento fallito in partenza, e lo sapevano entrambi. Lui la desiderava, le spiegò, ma non voleva che lei fosse spinta dalla semplice gratitudine.

Questo la fece sentire vuota e fredda. Teresa tentò di rassicurarsi, e anche di riaffermare una certa indipendenza, prendendosi altri amanti tra gli artisti che conosceva, ma lo sforzo si dimostrò vano. Il che la convinse di aver perso la capacità di amare, magari per colpa delle pillole.

Il suo legame ossessivo con gli oneiroliti si approfondì. Byron la presentò a Cruz Wexler, l’accademico che aveva scritto due libri sulle pietre e che dirigeva una specie di centro di ricerca fuorilegge nella vecchia proprietà di Carmel. Wexler, un uomo di mezza età, con un’espressione schietta e un enfisema progressivo e incurabile, si dimostrò entusiasta dei suoi lavori e li fece conoscere ad alcuni amici facoltosi. Così Teresa ricavò nuovi guadagni. Rimise a nuovo il suo studio nella Città Galleggiante e comperò attrezzi che non aveva mai potuto permettersi.

E quando una nuova inquietudine la sopraffece, insieme alla sensazione di essersi spinta fino ai limiti del probabile nella conoscenza degli oneiroliti senza aver ritrovato la propria completezza, fu ancora Cruz Wexler a darle una nuova speranza accennando all’esistenza di un nuovo tipo di pietre, quelle di profondità, che potevano fornire una risposta alle sue domande.

Lei avvertì un’ansia quasi fisica. — Posso averne una?

Lui sorrise. — Nessuno di noi può averla. Ho parlato con gli altri istituti di ricerca. I controlli sono severissimi.

Fu una delusione enorme. Le pietre riprodotte da Byron, sebbene generassero visioni del passato, non avevano mai risolto il mistero della sua prima infanzia. Qualche volta Teresa aveva rivisto l’incendio, un inferno di fumo e fiamme, ma niente che riguardasse se stessa. Continuava a ignorare dov’era nata e chi fossero i suoi genitori. I ricordi erano rimossi molto in profondità, aveva detto Wexler. Lei aveva cominciato a credere che le risposte che voleva fossero sepolte in un specie di pozzo buio. Quando ne avesse trovato la chiave, anche lei sarebbe diventata una persona nuova.

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