— Figlio di puttana! — esclamò Byron. — È una passeggiata , ha detto. Una fottuta vacanza! È una passeggiata al cimitero, ecco cos’è!
— Non preoccuparti — si intromise Teresa, con dolcezza.
— Ci ha fottuti!
— Byron, per favore…
— Maledizione — disse ancora Byron. Ma si sedette.
Lei si voltò verso Ng. — Se è così pericoloso, perché avete accettato di aiutarci?
Ng si appoggiò all’indietro, abbracciandosi le ginocchia.
— Mi annoio con facilità — rispose.
Ora riesco a sentirlo , pensò Teresa.
Nel cuore di quell’inferno, era così vicino. Sentiva dentro qualcosa che assomigliava a una fitta di dolore, all’amarezza di una vecchia perdita, a un attacco di malinconia.
Giaceva nel buio, nella baracca di Ng, rannicchiata su una stuoia, vicino al centro del mondo.
Malinconia, pensò, ma anche paura. Ormai poteva ammetterlo. Non era ingenua come Byron a volte sembrava pensare, ma la miniera l’aveva colta di sorpresa. L’aveva sconvolta con la sua brutalità, lo squallore, lo spreco di vite che vi si consumava. Non era inteso per diventare così , si disse.
Si rialzò a sedere nel buio. Attraverso le finestre senza vetri vedeva Pau Seco, stesa ai piedi della collina illuminata dalla luna. Qua e là brillavano delle torce, simili a stelle nell’oscurità.
Pensò agli Esotici, il popolo alato che aveva visto così spesso nelle sue visioni. Loro non le facevano paura, la sensazione della loro benevolenza era vivida e intensa. Eppure avevano qualcosa di profondamente diverso dagli uomini, qualcosa di più vitale che non la forma del corpo.
Non avrebbero mai creato niente di simile a Pau Seco. Non avrebbero mai immaginato che qualcuno potesse crearlo.
Teresa si sdraiò di nuovo nell’oscurità, stanca e confusa.
Non era stata del tutto un’idea sua venire fin lì. Era stato piuttosto un imperativo, qualcosa più da sentire che da comprendere, una specie di richiamo natio. La sua storia si perdeva nel buio, o meglio nelle fiamme che avevano distrutto la Città Galleggiante quattordici anni prima. La sua infanzia era un mistero. Era arrivata all’accampamento della Croce Rossa in condizioni pietose, ustionata, accecata dal fumo e praticamente muta. Era stata adottata, anche se l’adozione non era mai stata legalizzata, da una famiglia già numerosa di rifugiati guatemaltechi. Le avevano dato da mangiare, l’avevano rivestita e avevano cercato di imparare l’inglese da lei. Erano stati loro a chiamarla Teresa.
Lei era grata per le loro attenzioni, ma non si sentiva felice. Nel ricordo, quei giorni erano offuscati dal dolore e da un senso di perdita: aveva la straziante convinzione che qualcosa di estremamente prezioso le fosse stato sottratto. Si era affezionata a una bambola di pezza di nome Amy: gridava se qualcuno gliela portava via. Quando Amy cadde in un canale e scomparve sotto la superficie oleosa dell’acqua, lei pianse per una settimana. Si era adattata alla nuova vita abbastanza in fretta, ma l’angoscia senza nome non l’abbandonava mai… finché non aveva scoperto le pillole.
Una componente della famiglia, una donna grassa, di mezza età e di nome Rosita, che tutti chiamavano tia abuela , un giorno portò a casa le pillole dall’ospedale dove era stata ricoverata. Rosita soffriva di artrite reumatoide e prendeva le pillole per ricavarne, come diceva lei, sollievo. Erano narcotici analgesici, studiati per agire sui recettori di oppiacei del cervello. La donna era ormai assuefatta, ma alla clinica le avevano detto che le pillole non erano pericolose. L’assuefazione non sarebbe peggiorata, il che compensava il fatto che l’artrite non poteva migliorare.
Un pomeriggio, rimasta sola nella vecchia casa galleggiante della famiglia adottiva, Teresa rubò una pillola dal flacone di Rosita e la nascose sotto il cuscino. Aveva agito d’impulso, in parte per curiosità e in parte nella speranza che la pillola le garantisse lo stesso benessere proclamato da Rosita. Quella notte, a letto, la inghiottì.
L’effetto fu profondo e istantaneo. Dentro di lei, un’insospettata marea di angosce e sensi di colpa parve ritrarsi di colpo. Teresa chiuse gli occhi, assaporando il calore del letto, e sorrise per la prima volta dopo anni.
Tia Rosita aveva ragione, pensò. Sollievo.
Rosita andava a ritirare la ricetta due volte al mese. Due volte al mese, Teresa rubava una pillola dal flacone. Rosita non sembrava accorgersi del furto oppure, anche se se ne era accorta, non sospettava di lei. E Teresa non osava rubarne di più, per paura di attirare l’attenzione su di sé.
In ogni caso, viveva per quei momenti. Le pillole sembravano scoppiare dentro di lei, minuscole esplosioni di pace e di purezza. Incominciò a capire il senso di parole come solitudine o perdita e capì per la prima volta che potevano anche non avere un significato permanente o universale.
Aveva già sedici anni quando uno dei ragazzi che lei ormai considerava suoi fratelli, uno spilungone ventenne di nome Ruy, la condusse verso la zona deserta della darsena e le mostrò una manciata di compresse rosa e gialle, le stesse che Rosita si procurava in ospedale.
Lei non riuscì a trattenersi. Cercò di afferrarle. Ruy ritirò la mano, ridendo. Alle sue spalle, un volo di gabbiani si alzò dalle palificazioni di cemento. — Proprio come pensavo — disse il ragazzo.
Lei fissò con espressione avida il suo pugno serrato. — Puoi averne altre?
— Tutte quelle che vuoi.
— Posso comperarle?
— Acaso. - Lui alzò le spalle, con sussiego. Forse.
— Quanto vuoi?
— Quanto offri?
Lei non aveva niente da offrire. Frequentava una scuola gratuita nella parte nord della città, la sua insegnante di inglese la definiva "una buona allieva" e quella di educazione artistica diceva che aveva talento. Ma a lei non importava nulla della scuola. Poteva anche lasciarla, pensò, trovarsi un lavoro e guadagnare qualcosa… acaso.
— Quando avrai qualcosa da offrirmi — disse Ruy, allontanandosi con le pillole ancora imprigionate nel pugno, mentre lei si struggeva — allora potremo riparlarne.
Rosita, più vecchia e rugosa ma non meno vigile, le impedì di lasciare la scuola. — Che tipo di lavoro credi di poter trovare? Vuoi forse finire a fare la puttana in terraferma, come tua sorella Livia? — Scrollò la testa. — L’istruzione può salvarti, capisci? C’è troppa gente senza un pezzo di carta in mano. Senza documenti, senza carta verde, senza attestati di proprietà. Tu sei fortunata ad avere una scuola. Tienitela cara, finché c’è.
Fu la rabbia di Rosita, più che ogni altra considerazione pratica, a farla desistere. Teresa continuò ad andare a scuola, mantenne le sue abitudini e ignorò Ruy che continuava a tentarla con le sue riserve di pillole apparentemente inesauribili. Finché, un giorno, l’insegnante di educazione artistica si complimentò con lei per un suo collage. Aveva realmente talento, disse. Avrebbe fatto strada.
Era una strana idea. Teresa si divertiva a mettere insieme collages e sculture, e a volte, mentre lo faceva, si sentiva bene come quando prendeva le pillole. Era come se qualcun altro eseguisse il lavoro servendosi delle sue mani, magari una parte di lei che era andata persa nell’incendio. Si abbandonava al lavoro e non si accorgeva più del tempo che passava. Una sensazione splendida.
Non aveva mai pensato di ricavare denaro da quell’attività. Le venne in mente all’improvviso, e le sembrò una buona soluzione. Una domenica si preparò una colazione al sacco e attraverso i ponti di barche si diresse verso le gallerie d’arte che si trovavano sulla superstrada costiera, in terraferma. Il continente la spaventava. Non era abituata al rombo delle auto e degli autocarri. Nella Città Galleggiante circolavano solo poche motolance, e in genere solo sui canali principali. E poi c’era l’inquietante solidità del terreno sotto i suoi piedi. Pietre, sabbia e sassi dovunque girasse lo sguardo.
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