Robert Wilson - Memorie di domani

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Per cercare una via di scampo a un tragico passato, Raymond Keller acconsente a diventare un Occhio, ovvero un volontario che accetta di farsi impiantare nel cervello un perfetto impianto di registrazione. In tal caso non potrà più guardare dove vorrà, ma solo dove è necessario per vedere, registrare, documentare. E così dimentica il proprio passato, il presente, il futuro. Finché incontra Teresa, la meravigliosa ragazza che è anche una splendida artista. Una donna preda delle violente allucinazioni indotte dai gioielli sognanti seminati in epoche remote da una razza di extraterrestri, e che hanno proprietà ancora non completamente esplorate dalla razza umana. Occorre qualcuno che abbia rinunciato a sé per poter penetrare un segreto tra i meglio custoditi dell’universo.

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Il contatto fu sconvolgente.

Vecchi, brucianti ricordi.

Teresa vide Keller a Cuiaba, dieci anni prima.

Keller il coscritto. Keller che guidava un mezzo di trasporto militare a chiazze verdi proveniente da Rio. Keller e un paio di altre reclute legate a un’unità da combattimento in quel polveroso carnaio, un po’ intontiti, con il fucile su una spalla e lo zaino sull’altra.

Il suo volto era indistinto, come un’immagine intravista e ignorata negli specchi, ma crudelmente giovane. Era magro come un chiodo, ancora senza barba e ancora ingenuo per la sua infanzia da periferia. "La beata innocenza della mancata comprensione" aveva sancito Meg.

Megan Lindsey era una delle ragazze del suo plotone. Un soldato semplice come Ray, ma lei, almeno, aveva qualche esperienza di combattimento. Era uscita in pattuglia nel famigerato corridoio della BR-364. — Razza californiana — aveva detto Byron. — Come te. Non parla molto. Problemi nei rapporti personali, direbbe qualcuno. Io credo che sia solo spaventata. E che abbia paura di mostrarlo.

Byron Ostler era l’Angelo del plotone. Keller era affascinato da quella specie di gnomo con i capelli bianchi, più giovane di lui di un anno, che aveva compiuto studi di chimica industriale in un istituto agrario del Midwest. Byron gli aveva mostrato la cicatrice alla base del collo. — Il segno degli Angeli — gli aveva spiegato. — Cercalo sempre. — L’aveva guardato attraverso le spesse lenti protettive. — Dovresti stare lontano da me, lo sai? Chi va con lo zoppo impara a zoppicare. E poi, chi può sapere che cosa verrà decodificato? — Gli fece balenare il tatuaggio davanti al viso. — Gli occhi della Sezione Personale sono su di te.

— Esaminano tutte le registrazioni?

— Soprattutto quelle che riguardano i combattimenti. Esaminarle in tempo reale potrebbe rappresentare un problema, ma non si può mai sapere.

A Keller non importava. Era affascinato da Byron, e ancora di più da Meg. Riuscì a capitarle vicino in mensa e le rivolse la parola. Lei parve gradire quelle attenzioni. I suoi genitori avevano un allevamento di batteri nella San Fernando Valley e lei era diventata color cioccolato a furia di camminare per i recinti tutte le estati dall’età di dieci anni, trascrivendo i valori di fermentazione su un registratore tascabile. Era agile, minuta, con un visino molto espressivo, ma Keller pensava che con ogni probabilità Byron aveva ragione: vi si leggeva anche una certa paura, e nemmeno troppo nascosta.

La guardava muoversi nei katas infuocati sul campo di parata sotto il sole ardente dei tropici. Persino il sudore le conferiva una grazia particolare. La T-shirt color cachi le ricadeva morbida dalle spalle e i pantaloni di fatica le modellavano i fianchi. I capelli, tagliati alla paggio secondo la foggia militare, riflettevano i raggi del sole a picco. Keller non aveva mai visto nessuna come lei. Continuava a guardare, all’ombra di un hangar-magazzino, e mentre l’immagine di lei gli si fissava nella memoria, ammise per la prima volta con se stesso che forse si era innamorato. Lei continuò a fendere l’aria e si accorse di lui solo qualche minuto più tardi, quando sedette in posizione zazen , sfinita dal caldo umido, con alle spalle le nuvole di un temporale che salivano dal Mato Grosso. Lo guardò e lo sconvolse con uri sorriso.

Dal momento che la caserma di Cuiaba era sovraffollata, Keller dormiva in una tenda montata tra i fari di illuminazione e il filo spinato che delimitava il recinto. Quella notte, quando si spensero le luci, Meg uscì dal bunker delle donne e andò da lui, bisbigliando il suo nome nel buio. Non si erano messi d’accordo, ma non fu una sorpresa, dato che la promessa era stata implicita nel loro sguardo. Fecero l’amore in modo un po’ inesperto, ma con grande passione, e si scambiarono ricordi d’infanzia nelle poche ore precedenti la sveglia.

Quando lui le chiese dei servizi di pattuglia sulla BR-364 Meg si mise a sedere di scatto, rabbrividendo nell’oscurità. — Scoprirai presto come sono.

Ray si scusò di averne parlato e lei gli passò le dita tra i capelli tagliati a spazzola. — Là fuori, Ray — gli disse — è facile fare cose di cui non si può affatto essere orgogliosi.

Il plotone uscì in missione un paio di giorni più tardi. Un mezzo di trasporto truppe li scaricò nell’aspra campagna coltivata a sud-est del Ti Parana. Keller si mosse con circospezione. Byron si immerse nel suo ruolo di Angelo, parlando poco, osservando fissamente ogni particolare e tenendosi al di sopra delle proprie paure. Meg si incamminò, stringendo il fucile tanto da averne le nocche bianche. La tensione era quasi palpabile poiché nei villaggi vicini era stata registrata un’intensa attività di guerriglia, ma loro non si accorsero di niente finché non caddero in un’imboscata, in un fangoso campo di manioca dalle parti di Rondonia. Il frastuono giunse improvviso e assordante. Il cielo si accese dei bagliori antisettici del fosforo incendiato. Keller udì da ogni parte i fischi e le esplosioni di grappoli di bombe. Cadde in ginocchio, senza quasi rendersene conto. Il sangue…

— No — disse Keller, e ritirò la mano.

Teresa aprì gli occhi, scossa.

Ray la fissava con espressione cupa. Qualcosa doveva essere arrivato fino a lui, pensò Teresa. Una parte di quelle immagini possenti che avevano cominciato a riempire il divario fra loro. I suoi ricordi. — Mi dispiace — assicurò, con voce roca. Aprì la mano e depose la pietra sul tavolo. La vecchia brasiliana si riavvicinò con la cassetta di sicurezza. — Passou a hora. - Il tempo a loro disposizione era scaduto.

L’esperienza l’avvilì. Tornarono a piedi verso l’albergo. A causa della pioggia, un’umidità densa si alzava nelle strade. In uno scorcio di vicolo, Teresa intravide una donna posseiro , di passaggio o forse senza casa, accovacciata tra i suoi miseri fagotti e intenta ad allattare un bambino nudo. Il piccolo aveva folti capelli neri, occhi grandi e lineamenti da indio. La madre gli reggeva la testa con un braccio e lo guardava con tanto evidente affetto che Teresa dovette distogliere lo sguardo, sentendosi improvvisamente debolissima. Dopo quello che Keller aveva detto di Byron, dopo ciò che aveva visto, l’immagine di quella donna le giungeva quasi come una punizione. Siamo tutti qui a cercare ciascuno il proprio Graal , pensò, a scavare nel fango, con le unghie, spinti non dall’ingordigia ma da una malintesa sincerità… Eppure quella donna analfabeta, accovacciata in un vicolo, di certo povera e magari senza casa, era intera là dove loro erano spezzati, sana dove loro erano storpi. Le sembrò di sentirsi trapassare da un vento gelido, che la fece sentire piccola piccola, e colma di vergogna.

L’atrio dell’albergo era caldo e sapeva di stantio. Fermo nella loro stanza, Ng li stava aspettando.

7

Quando fu certo che gli americani avevano lasciato Brasilia, Stephen Oberg si imbarcò su un volo della SUDAM destinato a raggiungere direttamente Pau Seco.

Gli bastò far vedere il tesserino dell’Organizzazione. In genere, la SUDAM e il governo brasiliano erano sempre disposti a collaborare. In teoria, secondo il documento, Oberg era un impiegato civile della DEA, ma considerate le vistose fusioni di agenzie federali negli anni Trenta, ogni distinzione era diventata ormai priva di senso. Il suo immediato superiore era un burocrate della NSA, momentaneamente impiegato nel settore sicurezza, e di fronte all’Ambasciata era lui che rispondeva delle sue azioni.

Il velivolo era affollato di guardie di pace in uniforme verde pisello, che parlavano tra loro con l’accento dell’ Ariguaia Valley e sembravano non far caso all’oceano di foreste sotto di loro. Oberg appoggiò la testa sul cuscino e fece finta di dormire. Pesava quasi novanta chili; il vestito grigio gli conferiva un aspetto massiccio e lui era un pensatore lento ma metodico. Non era solito alle crisi di nervi, ma doveva ammettere che il Brasile lo rendeva un po’ inquieto.

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