Scrollò la testa. I sogni erano prematuri. Peggio, pericolosi. Rimise la pietra nel materasso e rimandò la decisione. Per quanto possibile, si sforzò di sgomberare la mente.
Fuori, il cielo cominciava a schiarirsi. Si sentiva il rumore delle prime pentole; i galli cantavano e l’abbaiare dei cani randagi spazzava via la notte. Era un mattino come gli altri, si ripeté con severità.
Gli piacesse o meno, Meirelles apparteneva alla categoria delle formigas. Detestava quel termine: lui era un tipo orgoglioso, e il paragone con un insetto lo umiliava. Tuttavia, dato che faceva parte di quell’orda di uomini costretti a passare la giornata nella miniera con il sole a picco sulla nuca, immaginava che il paragone fosse inevitabile.
Portava enormi borse di tela fissate con delle cinghie alle spalle e alla vita. Il lavoro e la dieta altamente proteica della mensa lo avevano reso magro ma forte. Aveva trentacinque anni e li dimostrava tutti, ma con il tempo era diventato fiero del proprio corpo. L’epidemia del virus di Oropuoche, che aveva colpito Pau Seco l’anno prima, non lo aveva nemmeno sfiorato. Il suo fisico era più resistente e certamente più sano di quanto sarebbe stato se lui fosse rimasto a Cubatao.
Il pensiero non era piacevole, e Meirelles lo scacciò. Dopotutto, sua moglie e sua figlia abitavano ancora là.
Scese i gradini di legno che in una lunga serie solcavano il pendio ripido della collina; scese una scala di corda e infine l’ultima strettissima rampa che portava sul fondo della voragine. La temperatura, laggiù, era di dieci gradi più alta, e Meirelles si legò uno straccio attorno alla fronte per fermare il sudore. Alcuni uomini erano già al lavoro, mentre i garimpeiros controllavano dalle tende oppure si univano al lavoro muniti di picconi e badili. L’ambiente estremamente primitivo non lo impressionava; del resto, anche le fabbriche della Mogi River Valley erano primitive.
Meirelles si mise al lavoro come ogni giorno. Gli era impossibile ignorare il fatto, comunque, che quello non era un giorno come gli altri. La polizia militare stazionava in rigide falangi accanto agli alti recinti metallici che circondavano la miniera. Tutti quelli che entravano o che uscivano venivano perquisiti. E, per la prima volta da quando lui era arrivato, quel giorno c’erano soldati anche sul fondo. Si spostavano tra i garimpeiros e facevano molte domande.
Se avesse avuto un po’ di buonsenso, si rimproverò Meirelles, avrebbe lasciato la pietra nel materasso e se ne sarebbe dimenticato. In tutti i sensi.
Lui lavorava per un uomo di nome Claudio, un individuo noto per essere un nipote dei Valverde e già ricco per aver estratto dal suolo molte pietre di valore. Claudio incrementava i suoi profitti assumendo manodopera tra i poveracci che arrivavano in città in cerca di fortuna, procurando loro documenti falsi e minacciando poi di denunciarli all’autorità militare. Meirelles era appunto uno di questi. Guadagnava poco e spediva tutto a Cubatao, alla sua famiglia. Grazie ai documenti falsi non spendeva nulla né per mangiare alla mensa dei lavoratori né per dormire nella baracca.
Era un accordo duro ma abbastanza ragionevole, aveva pensato all’inizio. E se avesse estratto una pietra gli sarebbe toccata una percentuale, e avrebbe potuto trasferirsi con la famiglia lontano dalla letale Mogi River Valley. Tutto ciò che voleva era il denaro sufficiente a costruirsi una nuova vita.
Il tempo passava, molti oneiroliti venivano estratti, ma Meirelles non vedeva mai niente più della sua misera paga settimanale. Finché un giorno raccolse tutto il suo coraggio e andò ad affrontare Claudio nella grossa tenda sopra la miniera. Claudio lo blandì e gli promise che le cose sarebbero state diverse in futuro. Il giorno seguente, uno degli uomini di Claudio, membro di una setta indiana che si chiamava thug , gli fece un occhio nero e gli disse di accontentarsi di quanto gli veniva dato. Aveva un permesso di lavoro, no? che però poteva anche essere revocato. Doveva ricordarsi che era molto facile finire davanti alla corte marziale.
Meirelles non se ne dimenticò. Soprattutto il giorno in cui affondò il badile nell’argilla molle e lo sentì cozzare contro qualcosa di solido.
La giornata era quasi finita. Negli anfratti più profondi della miniera già si raccoglievano le ombre lunghe della sera. I lavoratori stavano radunando gli arnesi e si preparavano al lungo tragitto verso le docce e poi le mense. Sentendosi di colpo febbricitante, Meirelles affondò la mano nell’argilla umida e afferrò l’oggetto che aveva incontrato. Ancora curvo, scostando appena la terra che lo ricopriva, scorse il luccichio azzurrino della superficie di una pietra esotica. Era grossa, e perfetta; sicuramente di grande valore. Lui tremò, prendendola in mano.
Più tardi non seppe spiegarsi perché avesse deciso di rubarla. Il furto era difficile e pericoloso, inoltre non c’era un mercato pronto su cui un uomo come lui potesse contare. Senza dubbio, fu un atto irrazionale. Pensò alle blande assicurazioni di Claudio e all’uomo che gli aveva procurato un occhio nero. Pensò alla moglie e alla figlia, Pia, che tossiva nell’aria gialla e malsana della sua città natale. Una giornata intera nelle buche e nei labirinti della miniera a volte producevano in Meirelles una specie di sognante confusione, come se quelle cose aliene sotto la superficie influenzassero la sua mente rendendo il passato più reale e il presente meno pressante. Così, con Claudio e sua figlia nella mente, quasi come in sogno, tolse con il pollice l’argilla che ricopriva la pietra, l’avvolse nelle ghette di cotone e se la legò alla caviglia. Quando si rimise in piedi, il bordo dei pantaloni da lavoro ricadde naturalmente nascondendo il rigonfiamento.
Si voltò e scoprì che lo stesso Claudio, a qualche metro di distanza, stava guardando dalla sua parte. Meirelles si sentì gelare. Il panico lo prese allo stomaco e i testicoli gli rientrarono contro il corpo. Ma da parte di Claudio si trattava solo di un sospetto generico che lui nutriva nei confronti di tutti i suoi dipendenti. — Sbrigati — gli disse, agitando una mano in un cenno di disgusto. — È ora di andare.
Alla barriera di uscita Meirelles era ormai stravolto dalla tensione. Gli girava la testa, e un sudore freddo gli scendeva copioso dalla fronte. Incominciò a battere i denti. Era certo che la paura l’avrebbe tradito.
Invece, fu proprio la paura a salvarlo. Era il periodo in cui l’epidemia per il virus di Oropouche aveva raggiunto il culmine, per cui le guardie stavano alla larga dalle formigas , specialmente da quelle che mostravano qualche sintomo di malattia. Meirelles, con la fronte imperlata di sudore e i denti che battevano, probabilmente li spaventò. Fu perquisito da un militare giovane e pallido che lo toccò con lo stesso entusiasmo con cui avrebbe toccato una teglia rovente, quindi gli fu permesso di arrampicarsi indisturbato su per la collina fangosa cosparsa di rifiuti fino alla sua baracca, dove nascose immediatamente la pietra nel materasso.
La pietra divenne un simbolo della sua indipendenza da Claudio, l’incarnazione tangibile del suo orgoglio, della sua speranza, del suo futuro.
Meirelles era nato a Cubatao, un posto in cui secondo le statistiche solo un bambino su cinque arrivava alla pubertà.
Cubatao era una vecchia città industriale. Nel ventesimo secolo si era distinta come una delle zone più inquinate sulla faccia della terra, con le fabbriche che vomitavano nell’aria della vallata biossido di zolfo, monossido di carbonio e bifenili policlorinati. I veleni avevano denudato le colline e ucciso i bambini. Nel primo decennio del secolo successivo le industrie erano state nazionalizzate; per quanto obsolete, continuavano a rappresentare una buona fonte di guadagno, grazie ai bassi costi di manodopera e manutenzione. Nel mondo c’erano dei posti considerati molto peggiori, ma la Mogi River Valley continuava a rimanere pericolosa. Le fabbriche, modificate ma mai rimodernate del tutto, vomitavano nuovi veleni: cianuro, composti dell’arsenico, xylene e una nuova sostanza chiamata TCA.
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