Algis Budrys - Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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— Io… io guidavo a caso. Non avevo in mente un posto particolare. — Si guardò in giro. — Non sono furbo, Elizabeth… sono logico e ragionatore, e chissà che altro. — Sorrise, un po' intimidito. — Anche se sospetto che il peggio… ma questo viene quasi sempre dopo. Mi dico: «Che cosa faccio, qui?» E allora devo trovare la risposta. No, ci sono cose… — Agitò la mano nell'aria. — Cose che voglio dire. Questa sera. Non in futuro. — Avanzò di un passo, si voltò verso di lei, guardando rigidamente la spiaggia deserta, la scarpata dell'autostrada con la macchina ferma sulla piazzola, e il cielo a oriente. — Non so che forma assumeranno. Ma devo dirle. Se tu mi ascolterai.

— Ti prego.

Hawks scosse il capo, poi s'infilò le mani nelle tasche, irrigidendosi.

— Sai… Sai, durante la guerra, i tedeschi non vollero credere che il radar a microonde fosse pratico. I loro sommergibili erano dotati di ricevitori radar, per scoprire i radar antisommergibili in funzione. Ma ricevevano soltanto onde relativamente lunghe. Quando noi mettemmo i radar a microonde sui ricognitori e sugli aerei di scorta ai convogli, cominciammo a individuarli la notte, quando salivano in superficie per ricaricare le batterie. Ma in precedenza, durante la prima parte della guerra, dovemmo impadronirci di uno dei loro ricevitori, per determinarne i limiti. Me ne affidarono uno, per lavorarci sopra. Una squadra d'abbordaggio di un cacciatorpediniere era riuscita a recuperarlo da un sommergibile che era stato colpito da una bomba di profondità e costretto a emergere, e poi era stato finito a cannonate. I nostri riuscirono a portare via il radar poco prima che il sommergibile affondasse. Il ricevitore fu mandato al laboratorio dov'ero io, con un aereo speciale lanciato da una portaerei di scorta, e poi con una macchina. Mi arrivò dodici ore dopo.

«Bene, lo misi sul mio banco e lo guardai. Era sventrato dalle esplosioni, fradicio d'acqua… e terribilmente sporco. C'era fumo, c'era olio, corrosione dovuta all'acqua salata, contaminazione da fumi chimici dovuta agli scoppi dei proiettili… sai. E c'erano incrostazioni di ogni genere. Ma a quei tempi ero un giovanotto brillante, con qualche elogio e il mio grado di ufficiale di complemento, molto pieno del fatto di essere un ragazzo prodigio…» Hawks fece una smorfia. — Guardai l'apparecchio e mi dissi mentalmente «Uhm, non dovrebbe essere troppo difficile venirne a capo. Basta togliere un po' di questo schifo dalla superficie e…» E così via. E la chiazza di sangue secco intorno al foro più grande, per me era solo parte dello «schifo». Un marinaio, pensavo tra me professionalmente, io che non ero mai stato in mare, qualche marinaio era lì vicino quando i proiettili avevano colpito la torretta. Ma quando tolsi il rivestimento metallico, Elizabeth, lì dentro c'era un cuore umano, Elizabeth… lì tra le valvole e i fili.

Dopo un po', Elizabeth chiese: — E tu cosa facesti?

— Beh, dopo un po' tornai indietro e studiai il ricevitore, e costruii una copia. E in seguito, usammo il radar a microonde e vincemmo la guerra.

«Senti… il fatto è che la gente dice, quando muore un uomo: 'Beh, ha avuto una vita piena, e quando è venuta la sua ora, se ne è andato serenamente'. Oppure: 'Povero ragazzo… aveva appena cominciato a vivere'. Ma il fatto è che morire non è un incidente. È qualcosa che accade a un uomo in un giorno particolare della sua vita, presto o tardi. Accade a tutto quell'uomo… al ragazzo che è stato, al giovanotto che è stato… alle sue gioie, ai suoi dolori, alle volte che ha riso forte, alle volte che ha sorriso. Sia presto o tardi, come può, l'uomo che muore, sentire se la vita che ha vissuto era abbastanza o non lo era? Chi la misura? Chi può decidere, se muore, che era la sua ora? Solo il corpo raggiunge un punto in cui non può più muoversi. La mente… anche la mente senile, annebbiata dalle cellule del suo cervello che la soffocano, razionale o irrazionale… quella non si ferma mai: comunque, finché un rivolo di elettricità continua a scorrere da una cellula all'altra, funziona ancora: si muove ancora. Come può una mente dire a se stessa: 'Bene, questa vita è arrivata alla sua fine logica' e spegnersi? Chi può dire: 'Ho visto abbastanza'? Persino il suicida deve farsi saltare le cervella, perché deve distruggere la 'cosa' fisica, per sfuggire ciò che, nella sua mente, non gli dà requie. La mente, Elizabeth… l'intelligenza: la capacità di guardare l'universo, di badare a dove si posa il piede, a ciò che la mano tocca… come può smettere di continuare ad assorbire ciò che percepisce intorno a sé?»

Tese il braccio in un lungo arco rigido, verso la spiaggia e il cielo. — Guarda ! Per tutta la tua vita, ormai, avrai questo! E l'avrò anch'io. Nei nostri ultimi istanti, potremmo ancora guardarci indietro, essere qui ancora. Tra molti anni, a migliaia di chilometri da qui, l'avremo ancora. Tempo, spazio, entropia… nessun attributo dell'universo può toglierci tutto questo, se non uccidendoci, schiacciandoci.

«Il fatto è che l'universo sta morendo ! Le stelle bruciano la sostanza che le compone. I pianeti ruotano più lentamente sui loro assi, precipitano verso i loro soli. Le particelle atomiche che li costituiscono rallentano nelle loro orbite. A poco a poco, nel corso di innumerevoli miliardi di anni, l'universo si esaurisce. Un giorno si fermerà. Una cosa sola nell'intero l'universo diviene sempre più ricca e piena, e si apre a forza la strada, controcorrente. L'intelligenza… le vite umane… noi siamo le sole cose che non obbediscano alla legge universale. L'universo uccide i nostri corpi: li inchioda con la forza di gravità, fino a quando i nostri cuori si stancano di pompare il sangue opponendosi alla sua resistenza, fino a quando le pareti delle cellule si spezzano sotto il loro stesso peso, e i nostri tessuti si afflosciano, le nostre ossa s'indeboliscono e si piegano. I nostri polmoni si stancano di aspirare l'aria e di espellerla. Le nostre vene, i vasi capillari si spezzano per lo sforzo. A poco a poco, dal giorno in cui siamo stati concepiti, l'universo aggredisce e demolisce i nostri corpi fino a che non sono più in grado di riparare se stessi. E in questo modo, alla fine, uccide i nostri cervelli.

«Ma le nostre menti. … Ecco la cosa preziosa: ecco il fenomeno che non ha nulla a che vedere con il tempo e lo spazio, e si limita a utilizzarli… per descrivere a se stesso la vita che i nostri corpi vivono nell'universo fisico.

«Una volta, mio padre mi portò a fare una passeggiata, una sera tardi, dopo una nevicata. Passammo per una strada che era stata appena spalata. C'erano le stelle e la Luna. Era una notte fredda e limpida, e la neve scintillava in quella luce. All'angolo dove la nostra via si congiungeva con l'autostrada c'era un lampione altissimo. Io feci una scoperta. Era così freddo che mi piangevano gli occhi, e scoprii che, se li tenevo semichiusi, le lacrime diffondevano la luce, e tutto, la Luna, le stelle, il lampione, apparivano circondati da aloni e puntolini di luce. I mucchi di neve sembravano brillare come un mare di zucchero filato, e tutte le stelle erano intessute in un trina incandescente, e io camminavo in un universo così assurdo, così bello che quasi mi spezzava il cuore con la sua bellezza.

«Per anni ho portato nella mia mente quel momento e quel luogo. Ci sono ancora. Ma il fatto è che non era stato l'universo a crearli. Ero stato io. Vedevo tutto questo, ma lo vedevo perché avevo fatto in modo di riuscirci. Avevo preso le stelle, che sono soli lontani, e la notte, che è l'ombra della Terra, e la neve, che è acqua ghiacciata, e le lagrime dei miei occhi, e avevo creato un mondo prodigioso. Nessun altro ha mai potuto vederlo. Nessun altro ha mai potuto recarvisi. Neppure io posso ritornarvi, fisicamente: si trova trentotto anni nel passato, nella prospettiva al livello dell'occhio di un bambino, e la sua esattezza stereoscopica è basata sulla distanza tra gli occhi di quel bambino. Esiste realmente in un unico luogo. Nella mia mente, Elizabeth… nella mia vita. Ma io morirò, e allora dove sarà?»

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