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Algis Budrys: Il satellite proibito

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Algis Budrys Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys. Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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Barker vi si avventurò. Una sezione del quadrato s'inclinò, e i cristalli dell'orlo vi scivolarono sopra, in un ventaglio scintillante. Barker camminò cautamente in mezzo a essi, fino a quando arrivò all'estremità opposta della sezione, bilanciandola con il suo peso. Hawks si avviò lungo il pendio e scese per raggiungerlo. Barker tese il braccio, indicando. Attraverso la fenditura tra la sezione inclinata e il resto del riquadro, potevano scorgere gli uomini della squadra d'osservazione che sbirciavano verso di loro, ciecamente. Hawks guardò di nuovo l'orologio. Erano nella formazione da sei minuti e trentanove secondi. Tra loro e gli osservatori, visibile a malapena, giaceva un altro Barker. I cristalli sulla loro sezione scivolavano dalla fenditura e piovevano in lunghi, delicati fili di neve sull'armatura che si scorgeva appena.

Barker passò sul quadrato di lapislazzuli. Hawks lo seguì, e la sezione si raddrizzò alle loro spalle. Camminarono per diversi metri, e Barker si fermò. Il suo volto era teso, gli occhi scintillanti d'esultanza. Lanciò un'occhiata ad Hawks, e la sua espressione diventò guardinga.

Hawks guardò fissamente l'orologio. Barker s'inumidì le labbra, poi si voltò e prese a correre in una spirale sempre più ampia; i suoi stivali smuovevano mucchi di cristalli ed egli chinava il capo mentre ondate di luce rossa, verde e gialla si spegnevano sulla sua armatura. Hawks lo seguì, mentre i lapislazzuli si spezzavano in grandi crepe gelide, formando una rete sotto i suoi piedi, mentre correva in tondo.

I lapislazzuli divennero azzurro-acciaio e trasparenti, e poi scomparvero, lasciando solo la rete delle fratture, su cui Barker e Hawks continuavano a correre, mentre sotto di loro giaceva l'armatura coperta di neve e gli osservatori stavano evidentemente a pochi centimetri di distanza, e dietro di loro si scorgeva l'orizzonte tormentato della Luna, contro il quale s'incastrava l'arco del cielo.

Erano nella formazione da nove minuti e diciannove secondi. Barker si fermò di nuovo, agganciandosi alla rete con i piedi e le pinze, appeso immobile, voltandosi a guardare Hawks che lo seguiva. Gli occhi di Barker avevano un'espressione disperata. Respirava ad ansiti, muovendo la bocca a fatica. Hawks gli si fermò accanto.

La rete di fratture cominciò a infrangersi in schegge affilate come pugnali; queste cadevano lasciando grandi squarci in cui turbinavano nubi di particelle fumose grigio-acciaio che formavano strati taglienti e si sospendevano nel grande spazio aperto, sopra il punto dove stavano aggrappati Hawks e Barker; le frange vorticavano salendo e congiungevano gli strati in una griglia di incroci marmorei a piani bruschi, che avanzavano verso di loro.

Barker improvvisamente chiuse gli occhi, scosse con violenza la testa dentro al casco e con una smorfia cominciò ad arrampicarsi sulla rete, tenendo il braccio sinistro premuto contro il fianco, e aggrappandosi con la mano destra non appena il suo peso lasciava l'appiglio abbandonato dal piede sinistro.

Quando Hawks e Barker uscirono sul bordo della rete, accanto all'armatura che giaceva sotto la crosta di punte di pugnali spezzati, erano ormai nella formazione da nove minuti e quarantadue secondi. Barker si girò verso gli osservatori, attraversò la parete, e uscì all'aperto, sulla Luna. Hawks lo seguì. Si fermarono a guardarsi attraverso i vetri dei visori: la formazione era alle loro spalle.

Barker la guardò. — Sembra che quella cosa non sappia che cosa abbiamo fatto — disse, nel circuito del radiotelefono.

Hawks gettò un'occhiata dietro di sé. — Pensava che se ne accorgesse? — chiese, scrollando le spalle. Si rivolse agli osservatori che attendevano, in piedi, chiusi nelle tute, con espressioni pazienti dietro le sfere di plastica trasparente dei caschi.

— Avete visto accadere qualcosa di nuovo, mentre eravamo là dentro?

Il più anziano del gruppo, un uomo dalla faccia grigia e chiusa, con gli occhiali cerchiati d'acciaio fissati da una fascia elastica, scosse il capo. — No. — La sua voce arrivò distorta, attraverso il microfono applicato sulla gola. — La formazione non mostra segni esteriori di aver discriminato tra un individuo e un altro, o di aver reagito in modo speciale alla presenza di più di una persona. Cioè, suppongo che sia così, presumendo che siano state osservate tutte le sue regole interne.

Hawks annuì. — È stata anche la mia impressione. — Si girò verso Barker. — Ciò significa, molto probabilmente, che adesso possiamo cominciare a mandare là dentro le squadre di tecnici. Credo che lei abbia portato a termine il suo lavoro, Al. Ne sono convinto. Bene, andiamo con questi signori, per un po'. Potremmo fare a loro i nostri rapporti verbali, nel caso che Hawks e Barker abbiano perso i contatti con noi prima che uscissimo. — S'incamminò lungo il sentiero verso il bunker , e gli altri lo seguirono.

4

Gersten s'inginocchiò, si piegò sul vetro aperto del casco. — Tutto bene, Hawks? — chiese.

Hawks lo guardò stordito. Un filo di sangue gli scendeva dall'angolo della bocca. Lo leccò, passandosi la lingua sul labbro inferiore inciso dai morsi. — Devo essermi spaventato più di quanto pensassi, dopo che si è staccato da me e mi sono accorto di essere nella tuta. — Girò la testa da una parte all'altra, disteso sul pavimento del laboratorio. — Barker sta bene?

— Lo stanno tirando fuori adesso dal ricevitore. Sembra in buone condizioni. Ce l'avete fatta?

Hawks annuì. — Oh, sì, è andata bene. L'ultima volta che ho sentito, stava facendo un rapporto verbale agli osservatori. — Sbatté gli occhi per liberarli dalle lacrime. — Che razza di posto, quello lassù. Senti… Gersten… — Il suo volto era contratto in un'espressione di disgusto, mentre lo guardava. Quand'era bambino, e soffriva di forti raffreddori, suo padre aveva cercato di guarirlo facendogli bagni bollenti e poi avvolgendolo nelle lenzuola umide, stringendogliele addosso a strati, e lasciandolo così inchiodato per tutta la notte. — Mi… mi dispiace chiederlo — disse senza accorgersi di aver girato il viso direttamente verso Gersten — ma non potrebbero tirarmi fuori dalla tuta prima di tirar fuori Barker?

Gersten, che in un primo momento aveva scrutato Hawks con interesse premuroso, assunse un'aria gelida e offesa. — Certo — disse e si allontanò, lasciando Hawks solo sul pavimento, come un bambino nella notte. Egli rimase così per parecchi istanti, prima che uno dei tecnici ritti in cerchio tutto intorno comprendesse che aveva bisogno di compagnia e s'inginocchiasse accanto a lui, entro la portata della visuale limitata dai bordi della visiera.

5

Hawks guardò il capo degli osservatori che richiudeva il taccuino. — Credo che basti, allora — disse all'uomo. Barker, che era seduto accanto a lui, al tavolo d'acciaio, annuì esitante.

— Io non ho visto nessun lago di fuoco — disse a Hawks.

Lo scienziato alzò le spalle. — E io non ho visto al suo posto un'arcata di vetro verde. — Si alzò e disse agli osservatori: — Signori, se ci richiudete le visiere, ce ne andremo.

Gli osservatori annuirono e si avvicinarono. Quando ebbero finito, lasciarono la stanza attraverso il portello stagno, per passare all'interno del bunker , e Hawks e Barker rimasero soli, a usare il portello esterno. Hawks fece un gesto impaziente, mentre la valvola d'aspirazione del casco ricominciava a trarre aria dalle bombole, con un fruscio intenso. — Andiamo, Al. — Disse. — Non abbiamo molto tempo.

Mentre svuotavano d'aria la camera stagna, Barker disse amaramente. — Certo che è bello avere qualcuno che si commuove per te e ti dà una pacca sulla spalla, quando hai realizzato qualcosa.

Hawks scosse il capo. — Costoro, qui, non s'interessano affatto a noi come individui. Forse oggi avrebbero dovuto farlo, ma è difficile cambiare abitudini. Non dimentichi, Al… per quelli lei non è mai stato altro che un'ombra nella notte. Solo l'ultima di tante ombre. E altri uomini verranno quassù a morire. Vi saranno occasioni in cui i tecnici sbaglieranno. Forse vi saranno ragioni che costringeranno lei e magari anche me a ritornare quassù. Gli uomini in quel bunker osserveranno, registreranno ciò che vedono, faranno del loro meglio per strappare informazioni a quella cosa… — Indicò con un gesto la massa d'ossidiana, che precipitava perpetuamente e perpetuamente tornava a rizzarsi, cambiando posto, incombendo sul bunker , ora riflettendo la luce delle stelle, ora nera e buia. — Quell'enorme enigma. Ma io e lei, Al, siamo soltanto strumenti, per loro. È necessario che sia così. Dovranno vivere qui fino al giorno in cui l'ultimo tecnico smonterà l'ultimo pezzo di quella formazione. E poi, quando ciò avverrà, gli uomini di quel bunker dovranno affrontare qualcosa cui avranno cercato di non pensare per tutto questo tempo.

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