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Algis Budrys: Il satellite proibito

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Algis Budrys Il satellite proibito

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La fantascienza è l’unico genere letterario nel quale l’uomo sia direttamente e concretamente posto a confronto con l’infinito. In questo dato risiede il suo fascino principale: perchè dall’infinito emerge l'enigma, l’ignoto, l’incubo, ed il confronto si trasforma in una sfida. Questo romanzo di Algis Budrys (un autore che i lettori di «Futuro» hanno già avuto modo di apprezzare) ripropone uno dei temi più classici della narrativa fantascientifica: quello della minaccia nascosta in un mondo sconosciuto, del mistero che deve essere rivelato a rischio della vita. Il mondo che cela l’enigma, e dà corpo alla sfida, è il nostro satellite naturale: la Luna, che l’uomo ha appena sfiorata, e che cela nelle sue viscere un segreto mortale. Cosa si nasconde in fondo al labirinto dal quale nessun esploratore è mai uscito vivo? Quale intelligenza maligna ha potuto concepire una trappola cosi crudele e mostruosa? L’intelletto umano non possiede strutture adeguate a scandagliare un abisso così folle e contorto, anche perchè la «cosa» che si cela in fondo all’abisso è a sua volta al di là della follia e dell’assurdo. «Il satellite proibito» è il più originale e famoso tra i romanzi di Budrys. Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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Hawks strasse un profondo respiro. — Benissimo, grazie — disse agli uomini della Marina, con voce lontana, meccanica, ferma attraverso il circuito del radiotelefono. — Le squadre degli osservatori sono pronte?

Un uomo, con le barrette del grado di tenente dipinte sul casco, annuì e tese il braccio verso sinistra. Hawks girò la testa lentamente, con espressione riluttante, e guardò nella direzione in cui le cupolette del bunker d'osservazione sembravano rannicchiate ai piedi di una parete di ròccia, dell'incombente formazione nera e argentea.

— Il passaggio è qui — disse Barker, toccando l'avambraccio di Hawks con gli utensili all'estremità della manica destra. — Andiamo… finiremo l'aria, se aspettiamo che lei metta il piede nell'acqua per sentire se è troppo fredda.

— Sta bene. — Hawks si mosse per seguire Barker sotto la tettoia mimetica, simile a un pergolato su cui non sarebbe mai cresciuto un rampicante, piazzata al di sopra del sentiero spianato tra la cupola del ricevitore e la formazione enigmatica.

Il tenente fece un segnale con la mano e si allontanò, seguito dai suoi, lungo l'altro sentiero che conduceva alla stazione, al loro abituale lavoro.

— Tutto pronto? — chiese Barker, quando raggiunsero la formazione. — Allora faccia lampeggiare la sua lampada in direzione degli osservatori, laggiù, perché sappiano che cominciamo.

Hawks alzò una mano e fece lampeggiare la lampada. Un punto di luce apparve, in risposta, sulla facciata spoglia del bunker.

— È tutto, Hawks. Non so che cosa stia aspettando. Faccia tutto quello che faccio io, e mi segua. Speriamo che questa baracca non si offenda perché non sono solo.

— È un rischio accettabile — disse Hawks.

— Se lo dice lei, dottore. — Barker protese le mani e appoggiò i lati interni delle maniche contro la vitrea parete increspata davanti alla quale s'interrompeva bruscamente il sentiero. Si spostò di sbieco e nell'armatura di Hawks vi fu un secco spang , un crepitio che salì dalle suole degli stivali, quando il muro accettò Barker e lo risucchiò.

Hawks abbassò lo sguardo sulla ghiaia del sentiero, coperto di orme come se di lì fosse passato un esercito. Si accostò alla parete e alzò le braccia, mentre il sudore gli colava sulle guance più rapidamente di quanto potessero asciugarlo i deumidificatori.

3

Barker si stava inerpicando su per un piano iclinato di uno scintillante nerazzurro, verso un punto in cui due facce marrone scuro cozzavano ripetutamente una contro l'altra. Intorno a Hawks turbinavano cortine verdi e bianche.

Si mise a correre, mentre squarci di trasparenza cristallina si aprivano tra le pieghe verdi e bianche, e lampi di luce rossa guizzavano fiochi sul fondo, e altri azzurri, verdi e gialli salivano intorno ai suoi piedi.

Hawks correva con le braccia strette contro i fianchi. Arrivò al punto dove aveva visto Barker tuffarsi avanti, rotolando su se stesso sfiorando un torrente turbinoso di flessibili frange pallide simili a foglie. Mentre si tuffava, passò sopra a un corpo contorto, chiuso in un tipo di tuta che non veniva più usato.

L'armatura bianca di Barker si coprì improvvisamente di ghiaccio che si staccò a pezzi, mentre correva, e piovve davanti a Hawks come una serie di stampi, in un mucchio di maniche, gambali e corazze, ai quali Hawks aggiunse anche i suoi nel passare.

Seguì Barker giù nell'imbuto a spirale le cui pareti li spruzzarono di una polvere grigio chiara che cadeva dalle loro armature in lunghi fili delicati, mentre essi giravano per superare il corpo di Rogan, che giaceva quasi nascosto da un mucchio di semicerchi invetriati, come un carico di piatti rotti e abbandonati.

Barker alzò la mano: si fermarono sul ciglio del campo di piani incrociati, uno accanto all'altro, guardandosi in faccia sotto una lucida lingua di metallo nerazzurro che sporgeva sopra di loro, arrugginita e brunita là dove un tempo un altro Barker s'era trascinato strisciando: e adesso egli giaceva là, con una manica bianca penzolante, un frammento di superficie verde stretta convulsamente nelle pinze. Barker alzò la testa in quella direzione, tornò a guardare Hawks, e strizzò l'occhio. Poi si afferrò a una delle sporgenze cristalline, trasparenti, della giuzzante parete rossa e si lanciò verso la successiva scomparendo oltre la curva dove ruscellava la luce azzurra, verde e gialla.

I piedi corazzati di Hawks calpestarono il vuoto mentre seguiva Barker oltre l'angolo. Avanzava aggrappandosi con le mani, tenendo il corpo proteso per mantenere le spalle al di sopra del livello della mani, mentre procedeva di sbieco lungo l'alta frastagliatura di un color giallo pallido, e ogni foglia semicurva si piegava come cera sotto il suo peso, si torceva sin quasi al punto che le sue pinze perdevano la presa sulla superficie che non riuscivano a penetrare con le punte aguzze. Doveva incrociare le braccia e spostare il peso da una frastagliatura all'altra, prima che quella lo facesse cadere, e mentre avanzava doveva torcere il corpo per evitare lo scatto dei mezzi dischi che aveva appena abbandonato. Sotto di lui giaceva un groviglio di armature spezzate, maniche e gambali e corazze contorte.

Finalmente, Hawks arrivò in un punto dove Barker stava disteso sul dorso a riposare. Fece per sedersi accanto a lui, chinandosi goffamente. All'improvviso gettò uno sguardo alla girobussola che portava al polso, e che indicava il Nord lunare. Si voltò, cercando di ritrovare l'equilibrio, e finalmente si fermò ansando, ritto su un piede solo come un trampoliere, mentre Barker lo sorreggeva. In alto, una trina arancione guizzò in una vitrea massa rossa, foggiata come una gigantesca testa di topo, e poi si placò, quasi riluttante.

Camminarono lungo un'enorme piana indistinta di grigi e di neri pancromatici, seguendo una particolare fila d'impronte in mezzo a un ventaglio di orme. Tutte finivano in un'armatura bianca ammucchiata, tranne quella su cui Barker si fermava di tanto in tanto, ogni volta a un passo da un suo cadavere, e si spostava da un lato, o semplicemente aspettava un po', o smuoveva un po' i piedi. Ogni volta, la piana riprendeva di colpo colore, dal punto di vista di Hawks. Ogni volta che seguiva Barker, il colore si spegneva, e la sua tuta pulsava di un suono ligneo, squillante.

Al termine della piana c'era una muraglia. Hawks consultò l'orologio. Erano nella formazione da quattro minuti e cinquantuno secondi. La muraglia ondeggiava e ribolliva di bollicine, dai loro piedi fino al cielo nero, con i suoi ventagli di luce violetta. Fiori di ghiaccio sbocciavano sulla piana dove cadevano le loro ombre, e si levavano più alti là dov'erano più lontano dall'orlo, in minore contatto con la luce. Il ghiaccio formava rozze copie aggobbite delle loro armature e, quando Hawks e Barker si mossero contro la muraglia, il ghiaccio restò esposto per un momento, poi esplose silenziosamente per la pressione del vapore, e ogni frammento che volava via lasciava una lunga, delicata scia, mentre divorava se stesso. Poi l'esplosione si placò, lentamente.

Barker batté sulla parete con un martello da geologo, e uno scintillante cubo neroazzurro si staccò, scoprendo una ruvida superficie bruna e piatta. Barker batté leggermente, e la superficie cambiò colore, diventando di un bianco scintillante, acceso da frementi fili verdi. La parete diventò cristallina e trasparente, e scomparve. Erano sul bordo di un lago di fumante fuoco rosso. Sulla riva, semisepolta, con la vernice bianca coperta di fuliggine gialla, carbonizzata e fusa come se fosse stata vetrificata, giaceva un'armatura di Barker. Hawks guardò l'orologio. Erano nella formazione da sei minuti e trentotto secondi. Si girò e si guardò indietro. Sulla piana pancromatica stava un cubo di metallo scintillante, nerazzurro. Barker tornò indietro, lo raccolse e lo gettò al suolo. Una ruvida muraglia bruna s'innalzò tra loro e la piana, e alle loro spalle il fuoco si smorzò. Dove prima stava l'armatura bruciata, c'era un mucchio di cristalli, sull'orlo di un riquadro di lapislazzuli, all'incirca d'un centinaio di metri di lato.

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