Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Poco dopo ci fermammo sulla Riverside Drive; pagai il tassista e mi guardai attorno. L’Hudson scorreva limpido e tranquillo. Sulle alture dalla parte del Jersey crescevano alberi maestosi, e non vedevo affatto il ponte George Washington… non era stato ancora costruito, supposi, quando avevano smesso per sempre di costruire. Ma l’edificio di cui avevo l’indirizzo era in ottimo stato. Tutte le finestre avevano i vetri. Le mattonelle dell’atrio erano lucide come specchi. Mentre salivo per le scale verso il sesto piano il ronzio di un motore m’informò che quell’arrampicata non sarebbe stata necessaria: avevano un ascensore funzionante. E quando suonai all’appartamento 6-C la porta si aprì subito, ma la persona che apparve sulla soglia non era affatto quella che m’ero atteso di vedere. Era il senatore.

— Nicky! — esclamò. — Ehi, Nyla! C’è Nicky DeSota. Vieni a salutarlo!

Lei uscì dalla cucina, bella e felice e molto simile alla persona che stavo cercando — almeno quanto io ero simile al senatore — ma non del tutto, perché la differenza fu sensibile quando mi strinse la mano. Comunque ero lieto di rivederli, e fui lieto di accettare una tazza di caffè mentre ci sedevamo in soggiorno. Parlammo di quel che stavo facendo io, di quel che facevano loro, di come ci trovavamo bene lì e di quanto poco rimpiangevamo il mondo che ci eravamo lasciato dietro le spalle.

Era un vero peccato che lei fosse la Nyla sbagliata.

Però loro sapevano dove fosse quella giusta, e venti minuti più tardi ero di nuovo in strada. Diretto al Metropolitan Museum of Art. A non più di due minuti di cammino dal parco dov’ero atterrato col dirigibile.

Se il senatore e la sua Nyla erano stati sorpresi dal mio arrivo imprevisto, la Nyla senza pollici lo fu molto di più: mi fissò sbalordita, e un po’ sospettosa. — Senti, DeSota — disse subito, — tutto quel che è successo a casa nostra è roba passata. Se ce l’hai con me va bene, non ti biasimo. Ma non ho intenzione di chiedere scusa a nessuno.

— Non ce l’ho con te — risposi. — Anzi vorrei invitarti a pranzo… magari in quel ristorante dall’altra parte del parco, quello con gli alberi intorno.

— Non posso permettermelo!

— Ma io sì — dissi. — Ti va una passeggiata fin là? Così già che ci sono do un’occhiata a come mi stanno caricando il dirigibile.

Dopo qualche insistenza riuscii a tirarle fuori di bocca che fare due passi non le dispiaceva, visto che il suo orario di lavoro comunque era finito. Così attraversammo il parco e le mostrai i macchinari agricoli che venivano caricati a bordo, insieme a nastri di dati da immettere nei nostri computer, in cambio dei prodotti che avevamo venduto. Anche lei mi parlò del suo lavoro al museo. Non si trattava di un lavoro qualificato, precisò subito in tono quasi di sfida, ma era un buon lavoro. — La fortuna è stata — disse, — che quando è scoppiata la guerra al museo c’erano dei lavori in corso, perciò le cose migliori erano state coperte con cura. E queste le abbiamo trovate in buone condizioni. Ma le opere esposte al pubblico… ah! Specialmente i quadri! Io non sono in grado di restaurarli. Nessuno di noi ne è all’altezza. Però intanto li stiamo lavando per togliere il fango, e non hai idea della cautela che ci vuole per farli asciugare. Manciate di scaglie di colore sono cadute a terra da ogni quadro. Un giorno o l’altro qualcuno dovrà tirarsi su le maniche e studiare come riappiccicarle al loro posto, credo.

— Non sapevo che l’arte ti interessasse — commentai, facendola dirigere verso il ristorante. L’odore che usciva dalla cucina era appetitoso. Il locale si apriva direttamente davanti al mercato all’ingrosso, e naturalmente il cuoco si accaparrava la roba più fresca appena arrivata dalla campagna.

— Suppongo — disse lei in tono franco e spassionato, — che tu non sappia proprio niente di me, no? E forse è meglio così, altrimenti avresti ancora altri motivi per detestarmi.

Passai quella frase sotto silenzio. Il cameriere ci condusse a un tavolo e prese le ordinazioni. Cominciammo con granchi di fiume in salsa di avocados; i granchi venivano dall’Hudson, e gli avocados erano nostri, arrivati cinque ore prima e assolutamente perfetti.

— Sembra un buon lavoro il tuo — osservai, — anche se non c’è un vero bisogno di occuparsene subito, no? Voglio dire, forse per i quadri è così, ma per le altre cose… ho visto quell’obelisco che chiamano l’ago di Cleopatra, poco fa. Non può accadergli niente che non gli sia già accaduto, direi. — L’obelisco giaceva al suolo spaccato in numerosi pezzi. Aveva resistito migliaia d’anni in Egitto, ma pochi decenni a New York gli erano stati fatali.

Ripulendo gli ultimi frammenti di granchio dal guscio di un avocado lei alzò appena gli occhi. — E allora? — chiese.

— Allora mi stavo chiedendo se non t’interesserebbe un altro lavoro. Non nel tuo ramo, s’intende… non c’è molta richiesta di una polizia segreta da queste parti. Ma non ti piacerebbe dirigere un’orchestra?

Lei abbassò la forchetta. — Diri… un’orche…, Nicky! Di che accidenti stai parlando?

— Chiamami Dominic, ti spiace?

— Dominic, d’accordo. Be’, cos’è che vuoi dire? Io non ho mai diretto un’orchestra!

— Non mi hai detto che una volta ti sarebbe piaciuto suonare il violino?

— Io suonavo il violino! — Istintivamente si strinse le mani in grembo, irritata.

— E ora non puoi farlo, va bene. — Annuii. — Lo capisco. E questo t’impedirebbe di dirigere altri musicisti?

Quali altri musicisti?

Sogghignai. — Il nome che si sono dato è Orchestra Filarmonica di Palm Springs. Attualmente sono tutti dilettanti. Non malvagi, intendiamoci. Per loro è un lavoro part-time, visto che fanno parte del nostro collettivo.

Quale collettivo?

— Io sono l’amministratore del Desert Agricultural Consort — la informai. — È una specie di kibbutz, solo che non lo chiamiamo così perché non siamo ebrei. Un giorno riusciremo a mettere su una buona orchestra di professionisti. Ora come ora… be’, potresti dedicarti anche a un paio d’altri lavori.

Quale paio di altri lavori?

— Be’, uno sarebbe d’insegnare la musica ai bambini. E anche agli adulti che volessero imparare. Non abbiamo nessun insegnante di musica.

Lei si passò la lingua sulle labbra. Il coniglio in stufato venne deposto sul tavolo, e lo annusò con piacere. — L’altro? chiese, prendendo il cucchiaio per assaggiare il sugo.

— Ecco, l’altro non sarebbe esattamente un lavoro. Voglio dire, ho pensato che potresti, uh, considerare l’idea di sposarmi.

Non credo che prima d’allora qualcosa di me fosse riuscito a sorprenderla. Sono abbastanza sicuro di non aver mai dato a nessuno sorprese di qualche genere, anzi. Neppure a me stesso. Mi fissò intensamente, a lungo, mentre la coscia di coniglio che s’era messa nel piatto diventava fredda… la sua. La mia l’avevo già divorata e me n’ero servito ancora. Avevo fame e quello stufato era delizioso.

— Che mi dici di Greta Comesichiama, la stewardess?

Scossi le spalle. — Le chiesi di venire. Un bell’ologramma di un minuto, col sonoro. Lei rispose di no. — Sorrisi, perché adesso in retrospettiva la cosa mi sembrava divertente. — Mi mandò una di quelle olocartoline tipo auguri, sai? — Ricordavo d’essermela portata in camera un pomeriggio, mentre il senatore non c’era; l’avevo infilata nella fessura del computer e lei era comparsa sullo schermo, bella più che mai. Non ci avevo pianto, ma quasi. — Mi disse: «Nicky, tu sei un caro ragazzo, però non sai tenerti fuori dai guai. Io non ho bisogno di altri guai. Voglio soltanto vivere la mia vita».

Nyla rise. Sapevo che cosa ci stava trovando di comico: il fatto che qualcuno riuscisse a vedere in me un tipo troppo avventuroso per i suoi gusti. — Be’, sei un caro ragazzo, Nicky — ammise.

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