Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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— Quelli che abbiamo contro non sono certo dei superuomini, Dom — disse con fermezza. — Sono gente proprio come noi. Ne sanno di più, perché hanno raggranellato conoscenza da più parti, ma non sono più svegli. In questo mondo corre l’Agosto 1983, come nel tuo e nel mio. Loro non sono il futuro. Loro sono noi.

Ci meditai sopra. — Be’, non hai torto — concessi. — E dunque cosa intendi dire? Che tutto ciò che dobbiamo fare è di superarli, e poi fare quello che vogliamo con o senza il loro permesso?

Lui tornò serio. — Non esattamente — mormorò. Non spiegò meglio ciò che aveva voluto dire, e io non volli insistere.

Come dovevo accorgermi più tardi — molto più tardi — questo fu uno sbaglio.

Quand’ero stato eletto al Senato avevo dovuto adattarmi da un giorno all’altro a un tenore di vita completamente nuovo. Ad esso era legata una quantità di privilegi il cui uso era fin troppo facile da apprendere: il campanello senatoriale che mi faceva arrivare subito un ascensore, non importa quanta gente fosse in attesa ai piani; il diritto al sottopassaggio con cui si potevano lasciare gli uffici del Campidoglio; la postra gratuita; le attrezzature ginniche e la sauna riservate ai soli senatori. E avevo dovuto imparare anche accorgimenti meno piacevoli, come quello di non apparire mai in pubblico senza essere rasato di fresco, o quello di rispondere sempre ai saluti dei passanti perché non potevo sapere chi fosse un membro del mio collegio elettorale. Fra una cosetta e l’altra, in quelle prime due settimane a stento ricordavo d’aver avuto una vita a Chicago.

Lì era la stessa cosa… quasi. Avevo tante cosette da apprendere che mi mancava il tempo di ripensare al mondo che m’ero lasciato alle spalle. Dimenticai i progetti di legge a cui avevo lavorato. Dimenticai la guerra che infuriava allorché ero stato rapito. Dimenticai perfino Marilyn… be’, avevo già fatto una certa pratica nel dimenticare mia moglie, ormai da un pezzo.

Non dimenticai Nyla.

Più sembrava chiaro che non l’avrei rivista mai, e più ero sicuro d’aver perduto l’unica cosa che m’importava al mondo. Tutto ciò che Nicky diceva di quel mondo era vero. Non avevo difficoltà a immaginare che dopo un periodo di transizione, in quel nuovo Eden, avrei saputo costruirmi una buona vita: fare cose utili, incontrare una donna amabile, sposarla, avere figli, essere felice… ma per quanto buona, per quanto felice, essa sarebbe stata sempre una vita senza Nyla.

Quella sensazione non mi abbandonava un istante.

Il quarto giorno fummo definiti ragionevolmente puliti, il che ci portò dei privilegi. Per prima cosa Nicky ed io venimmo assegnati alla manovra delle cibarie, lasciando ad altri quella della spazzatura: un bel passo avanti. E poi ci fu permesso di uscire in strada!

Come c’era da aspettarsi non potevamo però andare dappertutto, inoltre dovemmo prendere delle misure per non contaminare l’aria pura dell’Eden coi nostri venefici sospiri di sollievo. Ci diedero tessere d’identità da appuntarsi sul petto, tute protettive e maschere a micropori. Poi Nicky se ne andò da una parte e io dall’altra.

Ciò che avevo in mente era di cercare qualche conoscente in uno degli altri alberghi. Il computer mi aveva detto che il Dom DeSota dottore in fisica abitava all’angolo opposto della piazza, in un altro degli hotel abbandonati trasformati in Case dei Gatti.

Il giorno prima aveva piovuto molto ed eravamo stati tutti quanti chiusi in casa. L’aria era secca e fresca, e gli enormi alberi che orlavano il parco frusciavano alla brezza. In strada c’era un bel po’ di gente che bighellonava oppure s’affrettava da un posto a un altro. Alcuni di loro erano senza faccia come me, quelli che non lo erano badavano a tenersi a distanza da noialtri mascherati. Non me ne importava. Il solo fatto d’essere uscito dall’albergo mi risollevava il morale. Avrei voluto che Nyla fosse con me per passeggiare mano nella mano in quei viali ameni, ma anche senza di lei mi sentivo allegro. Quando entrai nell’atrio dell’Hotel Pierre ero perciò abbastanza su di giri, e inoltre la prima faccia che vidi mi era ben nota. Sedeva dietro il vecchio banco di registrazione e stava parlando in tono irritato in un antidiluviano telefono a cornetta. — Quale sei tu? — chiesi, e scostai la maschera. Mi rivolse una smorfia.

— Sono quello che tu hai messo nei guai nel nostro tempo, idiota! — m’informò acremente. Dunque non era Lavrenti Djugashvili né lo scienziato; era il piccolo truffatore del Paratempo Tau.

— Non sono quello a cui stai pensando — dissi. — Sono il senatore. Nicky è il mio compagno di camera, al Plaza.

— Spero che ci resti a marcire — brontolo. Riappese l’auricolare all’apparecchio e scosse le spalle. — Bah… non volevo dir questo. Non ha senso continuare a rodersi l’anima, no? Ti va una tazza di caffè?

Be’, stava cercando di essere simpatico. E aveva del caffè! Dovetti dirmi che conoscere un abile lestofante presentava dei vantaggi, di quando in quando. Ci sedemmo a parlare un po’. Io gli dissi quel poco che c’era da dire su Nicky e me. Lui mi disse più di quel che avrei tenuto a sapere su di lui. La prima notte il suo compagno di camera era stato Moe: l’uomo dell’FBI! Notò la mia espressione e si strinse nelle spalle. — Come ho detto, non c’è scopo a guardarci storto, adesso. Ti pare? — Ma poi Moe aveva trovato un altro Moe… una copia identica di se stesso, e i due avevano deciso di condividere la stanza. Come se non bastasse, a loro s’era aggiunto un altro Moe ancora, e i tre stavano progettando di andarsene insieme al termine della quarantena: forse al metanodotto che stava per essere costruito dal Texas alla California meridionale, forse con una delle squadre addette ai lavori preliminari in una delle città ancora abbandonate, forse a una diga giù in Alabama, in una località che loro chiamavano Muscle Shoals. C’era molta richiesta per scimmioni disposti a fare i lavori pesanti, disse. E… lo sapevo che Nyla era lì all’albergo?

In un attimo il cuore mi balzò in gola per l’emozione. Ma naturalmente la Nyla di cui stava parlando non era la mia Nyla. Si trattava della donna dell’FBI.

Bevvi il resto del caffè senza neppure sentirne il sapore, e ascoltai il resto delle chiacchiere di Larry Douglas senza udire una parola. Ciò che saturava del tutto la mia mente era una questione morale. La Nyla che amavo era definitivamente al di fuori della mia portata.

Stavo meditando di mettermi insieme a un’altra Nyla?

Non considerai neppure l’eventualità che all’altra Nyla, quella dura e arida poliziotta, non sarebbe mai passato per il capo di mettersi con me. Questo anzi non aveva realmente importanza. La risposta che stavo cercando era sepolta nella mia mente, non nella sua. Cos’era ciò che amavo? Era il corpo fisico di una femmina attraente al quale il mio s’era unito come per una reazione chimica? Erano il fascino e la grazia di quella donna che suonava deliziosamente il violino, e sapeva muoversi con calda femminilità nei più rarefatti ambienti sociali? Avrei amato di meno Nyla Bowquist se non fosse stata capace di mostrarmi la differenza fra Brahms e Beethoven… o se fosse stata una sconosciuta, estranea al mondo indaffarato ed eccitante di cui avevamo fatto parte? In breve, l’avrei amata lo stesso se non fosse stata ricca e famosa?

Oppure — tornando alle questioni di base, quelle che non hanno mai una risposta veramente sensata — cos’era, comunque, ciò che io chiamavo «amore»?

Quand’ero immerso in ciò che avevo nell’anima, un po’ come se mi osservassi l’ombelico, ci mettevo poco a perdere il contatto col mondo reale. Così non c’è da meravigliarsi se le chiacchiere di Larry Douglas rallentarono bruscamente e poi cessarono.

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