Nella cabina passeggeri ci furono commenti e borbottii, ma non ne emerse alcuna domanda vera e propria. Probabilmente nessuno di noi ci teneva ancora a conoscere le risposte alle domande che avrebbe potuto fare. In quanto a me, stavo allungando il collo per guardare avanti poiché avevo visto quello che sembrava un ponte. E non mi piaceva affatto. Se fosse dipeso da me non avrei mai attraversato l’East River su un ponte che non aveva ricevuto una mano di pittura da mezzo secolo.
La donna aveva un’intera riserva di sorrisi dolci. — Se qualcuno di voi vuol darsi da fare fin da ora, il vostro albergo ha bisogno di personale: cuochi, lavapiatti, addetti alle camere e alla lavanderia, e così via. Dovrete essere autosufficienti per cose del genere, vedete, durante il periodo di quarantena. Ovviamente sarete pagati.
Io non la ascoltavo. Mi stavo aggrappando alla poltroncina e fissavo il ponte che si avvicinava sempre più. Poi svoltammo a destra e mi rilassai con un sospiro. Poi tornai ad aggrapparmi al sedile mentre sterzavamo rallentando giù lungo la riva del fiume. Avremmo trasbordato su un ferry-boat? Attraversato a nuoto? O ci avrebbero mollato li, con la terra promessa in vista oltre le acque, grattacieli sventrati e tutto?
Nulla di quanto sopra: non ci fermammo. Scivolammo avanti sulla piatta fanghiglia e quindi sulla superfice dell’acqua, con la stessa facilità, velocità e sicurezza con cui avevamo percorso le strade piene di buche della città. Dall’altra parte c’era quel che restava di un molo. Dei bagnanti nudi erano seduti lì con le gambe penzoloni, e non parve che il nostro arrivo li incuriosisse molto. Erano assai più interessati a uno dei loro, che era appena riemerso a una dozzina di metri dal molo e annaspava nell’acqua, agitando fieramente una fiocina su cui era conficcato un pesce lungo un buon metro e venti.
Se non altro adesso ci trovavamo in una zona di New York che avevo conosciuto bene. Riconobbi Canal Street, anche se i cartelli stradali erano caduti come frutti marci. Non ricordavo però i nomi delle traverse che oltrepassammo — orizzontarmi a Manhattan mi era sempre rimasto difficile — ma riconobbi, o riconobbi quasi, la Quinta Avenue quando fummo lì. Era stupefacente che non ci fosse proprio nessun Empire State Building su quella che senza alcun dubbio dovevo identificare come la Trentaquattresima Strada, e curioso che all’incrocio successivo si levassero le strutture a ragnatela di una tettoia di vetro, senza più i vetri, che un tempo aveva coperto tutta la strada.
Ci fermammo lì per un minuto, intanto che il conducente e la guida si rimettevano sulla faccia le loro maschere color carne. — Siamo quasi arrivati — annunciò gaiamente la donna. — Il posto si chiama Hotel Plaza. Un po’ malridotto e ammuffito, forse, ma… oh, che bella vista potrete godere della foresta del Central Park!
Dopo che ciascuno di noi ebbe una camera del vecchio albergo, e fummo condotti a pranzo, ci vennero date molte spiegazioni. Ci fu data anche una nuova identità. Adesso eravamo «Paratemporally Displaced Persons» o per brevità Peety-Deepies. Ci aspettava una quarantena di sette giorni, tanto occorreva perché i microbi rimasti nel nostro sangue crepassero di fame, se pure qualcuno era sopravvissuto alle iniezioni e agli spray con cui li avevano bombardati mentre dormivamo. Comunque, se andarcene da quell’albergo era questione di giorni, da quel paratempo non ce ne saremmo andati mai.
Eravamo lì per restarci.
Non si stava affatto male al Plaza Hotel. La donna non ci aveva raccontato balle. Era un posto simpatico, in fondo. Ed era stato un posto simpatico, lo ricordavo, anche nel mio Anno Domini 1983. Una specie di maestosa vecchia vedova con alcuni matrimoni storici alle spalle: Zelda e Scott Fitzgerald avevano vissuto lì, e a mezzanotte scendevano a fare il bagno nella fontana esterna.
Naturalmente da sessant’anni nessuno spazzava via le ragnatele. In quel mondo erano stati i ragni ad averla vinta sugli esseri umani. Questo si sentiva. Nel ristorante al piano terra stagnava uno strano e sgradevole odore, come se torme di animali fossero venuti a cena di quando in quando. (Lo avevano fatto.) Un quarto delle finestre erano state portate via dal vento, benché quasi tutte fossero state sostituite con pellicole di una specie di plastica allorché s’era deciso di riadattare il posto per noi. L’acqua che sgorgava dalle tubature era sempre un po’ rugginosa, e c’erano piani in cui non arrivava per niente. Tutto il mobilio stava andando a pezzi, specialmente i letti. Le stoffe s’erano trasformate in poltiglia, la poltiglia era diventata polvere, e l’imbottitura dei materassi poteva essere spezzata ma non piegata. Quella notte, per poterci coricare, Nicky ed io dovemmo sudare per rinforzare i letti con assi staccate dal retro di vecchi mobili, segate alla meglio. Aprimmo un paio di materassi per dare aria alla lana, e dopo che ci fummo rotti la schiena per cardarla a mano, e a calci, li riempimmo di nuovo. Non dovemmo preoccuparci delle coperte, ovviamente. Non in una notte d’Agosto a New York, in un albergo che non aveva mai saputo cosa fosse l’aria condizionata. Non tutto in quella stanza era marcio e antiquato. Un oggetto era decisamente nuovo. Dapprima lo scambiai per un televisore, benché fosse complicato dalla presenza di una tastiera. Quando Nicky in via sperimentale premette il pulsante «on» lo schermo s’illuminò, e su uno sfondo rosato apparve una nitida scritta nera. Diceva:
SALVE.
QUALE IL TUO C.I.P.?
Dal momento che nessuno di noi due sapeva cosa fosse un C.I.P. non potemmo soddisfare la sua curiosità, e lo schermo rifiutò testardamente di soddisfare la nostra. Per quanti interruttori e pulsanti usassimo null’altro vi apparve. L’unico che ottenne un risultato fu infine il pulsante con scritto «off».
Quel giorno era trascorso in fretta. Prima del tramonto avevamo reso la nostra camera abitabile… be’, più o meno. Ci eravamo forniti di asciugamani, cuscini, altri vestiti, sapone e tutti i vari oggettini necessari ad assicurarci la sopravvivenza. Avevamo scoperto come aprire la plastica trasparente della finestra per lasciar entrare un po’ d’aria… e ci eravamo affrettati a richiuderla, perché con l’aria erano arrivati nugoli di zanzare dal groviglio di vegetazione che un tempo era stato il Central Park. Poi la riaprimmo, ma tenendo le luci spente perché gli insetti non ne fossero attirati.
Ero sfinito. Mi lavai la faccia e i denti, e mentre Nicky prendeva il mio posto al lavello indugiai a guardare il parco, una vista interessante, come aveva promesso la nostra guida, per quanto un po’ aliena. Giusto sotto di noi nella strada c’era vita, case abitate, veicoli e gente che andavano in giro; ma a trecento metri da lì iniziava una zona fatta di tenebra. Il cielo era stracolmo di stelle nitidissime, uno spettacolo di cui si era perduto il ricordo nella New York della mia linea temporale.
Abitavamo un città morta. Soltanto la piccola zona circostante l’albergo era il focolaio dell’infezione da cui il germe della vita si preparava a invadere di nuovo quelle terre.
E se la città era vuota, per me lo era mille volte di più, perché Nyla Bowquist non era lì.
Provavo una sorta di triste meraviglia al pensiero che Nyla aveva soggiornato in quell’albergo, forse in quella stessa stanza, in un tempo parallelo, il nostro. Sapevo che prendeva alloggio al Plaza quando suonava alla Carnegie Hall, distante pochi isolati. Forse s’era affacciata anche lei a quella finestra. E ciò che aveva visto erano stati prati ben curati, le giostre, il laghetto, le bancarelle allineate all’ingresso del parco, e un milione di macchine, taxi e autobus che rombavano nelle strade lungo quel perimetro. Ciò che vedevo io erano i profili degli edifici in rovina, e le luci di un velivolo che si abbassava verticalmente verso qualche spazio libero…
Читать дальше