Agitandosi eccitato nel sedile al mio fianco Nicky DeSota ansimò: — È New York! Diavolo, non ero mai stato in questa zona di New York! — Mi diede di gomito con un sogghigno. — L’hai notato? Questo affare ha l’aria condizionata!
— Già, piacevole — annuii, perché quel che diceva era vero e interessante, ma la mia attenzione s’era spostata sul cubicolo di vetro davanti a noi. Dalla nostra parte c’era uno sportello trasparente, chiuso, e disponeva di un ingresso suo. Il lui/lei che ci aveva condotti a bordo era nel sedile accanto a quello del conducente, e ciò che osservavo era quel che stava facendo. Si stava rivelando per una lei: si passò le mani sulla faccia e il velo color carne venne via, scoprendo un volto in tutto normale. E inoltre molto grazioso. Scivolò poi fuori dalla sua tuta bianca, esibendo ulteriori prove della sua femminilità, e si volse verso di noi. Nella cabina passeggeri eravamo poco meno di una ventina.
— Buongiorno — ci salutò attraverso un intercom.
Accanto a me Nicky esclamò vivacemente: — Buongiorno! — E così un paio d’altri, come quindicenni sull’autobus della scuola… all’incirca come mi sentivo anch’io in quel momento.
— Già adesso — disse, — l’effetto dei vostri tranquillanti dovrebbe essere finito, così lasciate che vi spieghi cosa vi sta accadendo. Ci sono notizie buone e notizie meno buone. Quella buona è che nei prossimi ooty-poot giorni potrete muovervi liberamente e ovunque nel mondo in cui vi trovate, ed è un mondo abbastanza piacevole. Quella meno buona è che non potrete lasciarlo mai più. — Sorrise dolcemente. Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi la cabina si riempì di domande. Il suo sorriso non s’incrinò di un millimetro. — Non ho acceso l’interfono dalla vostra parte — disse, — così non posso sentire quello che dite. Prendetevi qualche minuto per parlare fra voi. Poi vi riassumerò brevemente quel che è successo, e perché, e ciò che vi attende. Infine avrete il modo di fare le vostre domande. Per arrivare all’albergo dove alloggerete ci vorranno ancora totter-tot minuti.
Ci dedicò un ultimo sorriso e tornò a volgersi al conduttore.
È arduo dare un resoconto ordinato e coerente di quello che fu il resto del viaggio… ci sarebbe troppo da dire. Probabilmente, se potessi ricordare i momenti della mia nascita, troverei altrettanto difficile descriverli, perché il caos di sensazioni in cui ero piombato mi sopraffaceva. E nel caos c’eravamo tutti… tutti salvo Nicky, direi, e invidiai la calma con cui prendeva quelle novità non meno dell’eccitazione con cui trovava aspetti positivi nell’intera strana faccenda.
Non potevo condividere i suoi sentimenti. Più di tutto e soprattutto continuavo a chiedermi se avrei mai rivisto Nyla…
Ogni Nyla.
Quando la donna cominciò il suo discorsetto di riorientamento ci eravamo già lasciati il mare alle spalle. Stavamo procedendo fra cumuli di macerie erbose e resti di case mezzo bruciate. Un paio di volte dovemmo farci da parte per lasciar passare hovercraft che viaggiavano in senso opposto, e i conducenti si salutarono l’un l’altro. Quelli che si dirigevano fuori città erano tutti vuoti. Nei dintorni non si vedeva un’anima viva. Scorsi tartarughe grosse come piatti da cucina che prendevano il sole sui marciapiedi, e anche un serpente arrotolato che mi parve un crotalo. Non si mosse neppure, seguendoci pigramente coi suoi freddi occhi vitrei. Vidi una volpe inseguire un coniglio in una piazza ingombra di sassi, finché lo strepito del veicolo non li mise in fuga entrambi.
E intanto ascoltavo.
La prima parte di quel che ci disse fu una sentenza d’esilio:
— L’uso incontrollato del portale conduce al caos fra i paratempi — disse severamente. — Perciò vi abbiamo messo fine. Abbiamo trasportato su questo pianeta tutti i principali responsabili della sperimentazione, e così anche tutte le persone che si trovavano in un paratempo non loro. Nello stesso tempo abbiamo reso infrequentabili i centri di ricerche in ogni paratempo, permeandoli di radioattività. Non avevamo altra scelta. L’alternativa sarebbe stata la distruzione per tutti.
Mi stiracchiai e sbadigliai. Stavamo percorrendo una lieve discesa, fra alberi fronzuti che crescevano alti su entrambi i lati. Davanti a noi c’era una piazza con alcuni edifici di una ventina di piani ancora intatti, il più grosso dei quali mi era ben noto. Avevano le finestre sfondate, e lungo i muri si arrampicava l’edera. — Fino a due anni fa — stava dicendo la donna, — questo pianeta era privo di vita umana. C’era stata una lunga guerra, che essi chiamavano la Guerra Mondiale, e qualcuno cominciò a usare armi batteriologiche. Finì con lo sterminio più completo. Tutti i primati, oltre all’uomo, morirono di quei virus, ma quasi ogni altro essere vivente sopravvisse. — Gettò uno sguardo al suo polso sinistro come se stesse consultando delle note. — Oh… non dovete preoccuparvi del contagio; il vaccino è una delle cose che vi sono state inoculate all’Accettazione. Siete stati anche ripuliti di tutti i microrganismi di cui eravate veicolo… strane pulci vi portavate addosso, voi gente! — Ci regalò un sorriso. Forse continuavamo a portarci addosso anche un po’ dei suoi tranquillanti, perché le sorridemmo di rimando. — Comunque, alcuni paratempi hanno cominciato a usare il pianeta per colonizzarlo… con gente che per una ragione o un’altra non era più ben accetta a casa sua, agitatori, scontenti e persone del genere. E naturalmente c’è un certo numero d’individui a cui piace la vita del pioniere. Ma questo verrà a vostro vantaggio, poiché c’è una struttura sociale in cui potrete inserirvi. Non sarete costretti a cercare radici o a correre dietro ai gatti per mangiare. Questa è una delle poche città che abbiamo rimesso in funzione… be’, più o meno in funzione, così la maggior parte di voi potrà coltivarsi una fattoria. Dopotutto il cibo è la cosa più importante.
Stavolta nessuno rispose al suo sorriso. Qualunque cosa fossimo stati a casa nostra, non eravamo contadini.
Cominciai a chiedermi quali capacità socialmente utili avrebbe potuto offrire a un mondo vergine un ex senatore degli Stati Uniti, con una laurea in legge e un principio d’artrite.
Sscendemmo giù lungo il pendio d’un colle verso uno degli edifici più alti rimasti in piedi, un grattacielo con un orologio alla sommità. (Uno dei quadranti mi disse che erano le tre, e un altro, senza la lancetta dei minuti, diceva che eravamo fra le dieci e le undici.) Sotto di noi c’erano dei binari arrugginiti, e poco più avanti si levava un ponte ferroviario, altrettanto arruginito. L’idea di passare sotto quelle travature vacillanti non mi sorrideva. Ma il conducente sapeva quel che stava facendo. Rallentammo per aggirare alcuni pilastri di granito, poi riprendemmo velocità mentre i binari sparivano via in un’ampia curva.
— Ci sono delle domande? — chiese vivacemente la donna.
Nicky fu il primo ad alzare la mano. — Che cos’è un totter-tot?
Lei sbatté le palpebre stupita. — Che cosa?
— Avete detto che ci avremmo messo totter-tot minuti. Almeno, così mi è parso.
Il suo volto grazioso si schiarì. — Oh, lo stavo dimenticando. Voi usate i numeri decimali, non è vero? Vediamo, questo sarebbe… mmh! — Guardò ancora il polso sinistro. — L’intera durata del viaggio è di circa quarantacinque minuti. Dunque, mh, ancora venti minuti. Altre domande?
Uno dei Dr. Gribbin alzò la mano. — Una grossa, miss. Io mi occupo della dinamica dei quanta. E questo vuol dire che non so un accidente di niente sulla dinamica delle zolle.
— Naturalmente — disse la donna con simpatia. — Questo è problema effettivo, qui. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno sono contadini, muratori e meccanici. Tuttavia ci sarà un programma di riaddestramento. — E rivolse un luminoso sorriso alle quindici persone il cui sorriso s’era improvvisamente congelato.
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