Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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27 Agosto 1983
Ore 11,50 della sera — Maggiore DeSota, Dominic P.

Essere un maggiore non significa affatto essere un maggiore quando non si hanno truppe da comandare, e le mie mi erano state tolte. C’era una battaglia in corso. Alle undici e un quarto tutte le armi che avevo visto sparire oltre il portale avevano cominciato a far fuoco simultaneamente. E lo scontro era stato sanguinoso fin dall’inizio. Lo sapevo perché stavo guardando il portale di rientro presso il ponte quando i primi feriti erano stati rimpatriati. Ma a me non era stato affidato nessun compito. Ero rimasto lì attorno coi pollici infilati nella cintura, aspettando che qualcuno mi dicesse dove si supponeva che io dovessi andare e cosa si supponeva che potessi fare.

L’intera operazione stava prendendo una brutta piega. Forse definitivamente brutta. Le nuove truppe che avevo visto entrare attraverso il portale a sud del ponte non erano combattenti dallo sguardo duro, il passo deciso, addestrati a uccidere o a morire. Erano penetrati nel grande rettangolo nero a bocca chiusa e con scarso entusiasmo. E quelli che venivano rimpatriati…

I medici e gli infermieri non bastavano neppure per portare via i soldati in barella.

Attraverso il portale di rientro passava l’aria, quindi passavano le onde sonore, e potevo sentire i colpi di cannone e le raffiche e le granate che esplodevano al di là. E l’aria che ne proveniva non risultava gradevole alle narici. Era la stessa umida e calda aria di Agosto che c’era da noi, ma puzzava. Puzzava di bruciato, di polvere e di esplosivi al plastico. Puzzava di fogne squarciate dai mortai, e dei gas di scarico dei carri armati.

Puzzava di morte.

In altre circostanze avrebbe potuto essere una piacevole notte. Riuscivo a immaginarmi a passeggio sul lungofiume con un braccio intorno a una ragazza graziosa, immerso in lieti pensieri. Faceva caldo, ma che altro c’è da aspettarsi da Washington in Agosto? L’afa non era insopportabile, e benché in cielo non si vedessero stelle c’era il continuo sciabolare dei nostri riflettori, a dozzine adesso. Non credevo realmente che riuscissero a ingannare i satelliti russi, non più, ma era un bello spettacolo vederli falciare le nuvole compatte.

Le circostanze invece erano spiacevoli. Ero più che mai lontano dall’essere un eroe. Tuttavia mi avevano fatto portare altri indumenti — pantaloni e giacca di pelle, probabilmente dal più vicino K-Mart — cosicché non ero più costretto a recitare la parte dell’ospite in abito da sera. Ma ciò non m’impediva di sentirmi ancora tale. Mentre mi aggiravo intorno al portale dovetti fare un balzo indietro per evitare un cingolato in uscita, carico di barelle, e andai a urtare in un altro sfaccendato indolente come me. — Scusi — dissi, e poi vidi le stellette di generale sul suo colletto. — Gesù Cristo! — esclamai.

— No — borbottò acremente il Generale Magruder. — Sono soltanto io, maggiore DeSota.

Non è facile sentirsi tristi per un Generale, specialmente per un Generale come Facciaditopo Magruder. Ma quello che mi stava davanti era completamente diverso dall’uomo che m’aveva triturato fra i denti giorni addietro nel New Mexico. Sembrava portarsi addosso tutto il peso del destino, e non mi occorse molto per scoprirne il motivo. Bastò che gli domandassi, con formale cortesia, quale aspetto dell’operazione stava dirigendo perché lui grugnisse: — Nessuno, DeSota. Sono stato trasferito. Fort Leonard Wood. Avrò un passaggio aereo domattina.

— Oh! — dissi. Non c’era nient’altro da dire. Quando un generale viene tolto dal teatro d’operazioni e mandato a dirigere un campo d’addestramento, quella è la sola parola che si è autorizzati a dirgli. Suppongo però che la mia faccia rivelasse ciò che stavo pensando, perché lui mi sorrise. Non fu precisamente un sorriso amichevole.

— Se è ancora preoccupato per un’eventuale corte marziale — disse, — se ne dimentichi. Ci sono almeno cento individui in fila davanti a lei.

— Questa è una buona notizia, signore — risposi.

Mi gratificò di un’occhiata fra sorpresa e disgustata. — Buona? — grugnì, come masticando la parola. — Io non userei l’espressione «buona notizia» davanti a… a questo! — agitò un braccio verso il portale, da cui un sergente vacillava fuori sorreggendo una donna coi gradi da sottotenente la cui testa era completamente avvolta in bende zuppe di sangue. Il generale esplose: — Quella stupida cagna di una Presidentessa! Perché ci ha costretti a farlo?

— È una pazza, signore — dissi, per compiacerlo.

— Sicuro, una maledetta pazza! Ma — aggiunse cupamente, — se non altro io riesco a capire il suo genere di pazzia. Non è una traditrice, lei. E quel dannato testaduovo…

— Signore?

— Lo scienziato! — sbottò. — Non parlo di Douglas. Quello che gli avevamo messo alle costole. Sa cosa viene a dirci, adesso? Avremmo potuto salvare l’intera fottuta operazione! Ci sono altri mondi che potevamo usare, mondi dove non c’è gente per niente!

— Niente gente, signore?

— Dove l’intera dannata razza umana si è tagliata la gola anni fa. Li ha visti con l’apparato-spia. Mondi dove c’è stata una guerra nucleare totale, negli anni sessanta o settanta. Certo qualcuno è troppo radioattivo, non è possibile utilizzarlo. Ma altri non lo sono. Avremmo potuto passare attraverso uno di quelli. Nessuna opposizione. Nessuno a metter bocca negli affari nostri. Avremmo potuto mandarci un intero esercito, una flotta, fare base in Russia e piazzare portali dove ci sarebbe piaciuto meglio. Non avremmo avuto bisogno neppure di bombardarli. Sarebbe bastato spingere oltre il portale una testata nucleare, o anche mille, in tutti i punti chiave della loro dannata steppa… bah! Volete una tazza di caffè? — terminò, bruscamente.

— Ecco…

— Andiamo — disse, e attraversò la strada verso l’edificio del quartier generale. — Inutile formalizzarci — bofonchiò, girandosi a mezzo, — adesso che tutto sta andando a farsi fottere.

Anche un generale rilevato dal comando ottiene quello che vuole. Il colonnello che stazionava nell’astanteria mi guardò con aria allusiva mentre passavamo oltre, ma non aprì bocca, neppure quando Magruder riempì due tazze di caffè al distributore e me ne porse una.

— Questa nuova operazione, generale… — cominciai a dire.

— Già, certo. L’abbiamo mandata a catafascio, credo. Ma il fatto è: quanto tempo ci rimane?

— Tempo, signore?

— I russi — precisò. — Si stanno mobilitando. — Ingoiò un lungo sorso di caffè. Era sì e no due gradi sotto il punto di ebollizione, e mi ci ero già ustionato le labbra. Magruder doveva avere la gola laminata in bronzo. — Il mondo sta per saltare in aria, DeSota — disse stancamente. — I prigionieri parlano con le guardie, le guardie parlano con le loro amichette, i feriti parlano con le infermiere, e i giornalisti piombano addosso a tutti come avvoltoi. Non potremo tenere il coperchio sulla pentola ancora per molto… qual è il problema, colonnello? — chiese, voltandosi verso l’ufficiale di picchetto.

Il colonnello s’era avvicinato, con un foglio in mano. Lo agitò nella mia direzione. — Scusi, signore — sbottò, in tono per nulla di scusa, — ma quest’uomo è Dominic DeSota, no? Cristo, DeSota, che accidenti sta facendo qui? È nel posto sbagliato! Mi risulta che dovrebbe essere già passato dal punto di uscita… tolga le chiappe da qui e vada immediatamente allo zoo!

Magruder parve stabilire che una corsa in auto con me era quel che gli si addiceva. Non pronunciò parola. Si limitò a balzare sulla jeep da una parte mentre io saltavo dentro dall’altra, e certo non stetti a obiettare. Continuò a tacere anche quando l’autista filò via facendo stridere i pneumatici. Non c’erano molte auto in giro. I civili avevano ubbidito agli ordini, e quelli che non stavano tappati in casa erano pochissimi. I semafori seguitavano a lavorare però al loro solito ritmo, e oltrepassammo gli incroci facendo ululare il clackson, rosso o verde che fosse, ma non trovammo nulla a ostacolarci finché non girammo sul viale.

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