Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Il messaggio venne mandato in onda, ma non feci caso alle parole. M’ero girata a guardare Nyla Christophe, e stavolta lei sostenne tranquillamente il mio sguardo. Dal poco che Dom mi aveva sussurrato di lei mi sarei aspettata, non so, una specie di agente della Gestapo combinata con Mata Hari. Non ne aveva l’aspetto. Sedeva con le mani sotto le cosce, come se non volesse mostrarle. Quella che vedevo era una giovane donna della mia età, con la mia faccia, il mio corpo — be’, no, forse era quattro o cinque chili più leggera di me, ma questo non andava certo a suo svantaggio — una donna che avrei potuto vedere guardandomi allo specchio ogni mattina. Sapevo che aveva fatto paura a molti. Io non avevo mai fatto una cosa simile, no, a nessuno e mai; e non credevo proprio che mi fosse possibile istillare paura fisica in qualcuno. Ma io non ero cresciuta in un mondo che amputava i pollici a una ragazza per aver rubato nei negozi. Non disse nulla, anche se mi parve che non ci fosse nulla di ostile nel modo in cui studiava il mio volto. Neppure io parlai, anche se cominciavo a sentire che se avessimo potuto sederci da qualche parte per un tête-à-tête fra noi donne avremmo potuto, in realtà, capirci molto bene.

Poco a poco mi rendevo conto che lei e io non eravamo le sole a fissarci a vicenda. Lavi Djugashvili, che s’era alzato per uscire, adesso esitava. Stava scrutando i due uomini di nome Larry Douglas. Sussurrò qualcosa a John Kennedy, apparve perplesso, scosse il capo e finalmente disse: — Mr. Douglas? Posso scambiare una parola con voi… con tutti e due voi, forse?

— Perché no? — rispose uno di loro (non avevo modo di sapere chi).

— Ho notato — disse Lavi, — che ci rassomigliamo molto. È mai possibile che fra noi ci sia una parentela?

Uno dei Larry Douglas rise. — Diavolo, uomo, questo è il più grosso eufemismo che abbia mai sentito. Noi abbiamo gli stessi due genitori, e gli stessi quattro nonni.

— Stai parlando di nonno Joe — annuì l’altro Larry.

— Sto parlando di tutti e quattro — disse il primo. — Nonno Joe era solo il più famoso. Le fece veramente grosse, ottanta o novant’anni fa… banche svaligiate in Siberia, fughe con la polizia alle calcagna, tutto quanto. Quando in Russia la terra cominciò a scottargli sotto i piedi venne in America, e usò il malloppo per mettersi in affari a New York. Divenne ricco, quel drittone.

— Anche il mio ha fatto lo stesso! — esclamò l’altro. — E il tuo ha fatto la stessa fine? Ammazzato da uno che lo colpì con un punteruolo da ghiaccio, nella sua residenza estiva ad Ashokan?

— Non fu uno scalpello da ghiaccio, e non fu in inverno, e accadde a Hobe Sound — disse il primo. — Però, sì. Dissero che c’era di mezzo la politica. Aveva intascato fondi che si supponeva dovessero andare ai sindacati comunisti, come saprai. Anche tuo nonno, ambasciatore, è finito così?

Lavi li fissò, gravemente, poi disse: — Fino a un certo punto sì. Solo che i miei nonni non hanno mai lasciato la Russia. Nonno Josip rimase là, e divenne famoso sotto il nome che assunse entrando nel partito: Stalin. — Si passò una mano sulla faccia. — Tutto questo — aggiunse, — è molto sconcertante. Adesso vi prego di scusarmi. In ogni caso è ora che io torni alla mia ambasciata, ma voi gentiluomini… la situazione… mi piacerebbe chiarirla, devo dire. — Tacque e scosse la testa.

Io non ne potei più. Mi alzai e gli misi un braccio intorno alla vita. Era sbigottito. E anch’io un poco. Ma si sciolse da me e mi afferrò per una spalla, guardandomi con occhi vacui. Poi mi lasciò, fece un passo indietro, mi baciò la mano e disse: — Bisogna che vada a…

S’interruppe a metà della frase, accigliandosi.

Sono certa che anch’io mi accigliai, perché udivo quello che udiva lui. Quel vago e lontano esplodere d’armi da fuoco non era più né vago né lontano. Proveniva giusto dalla strada sottostante.

Nessuno mi stava guardando. M’accorsi che tutti i presenti avevano girato gli occhi alla scala che saliva all’appartamento privato della Presidentessa, al piano di sopra. Le guardie del Servizio Segreto che stazionavano sugli scalini, sorvegliando che fra noi non ci fossero dei traditori, avanzarono nel salone e ordinarono a tutti di accostarsi alle pareti. Quello che passò di fronte a me disse: — Sono Jenner, Servizio Segreto. La Presidentessa sta per essere evacuata.

— Evacuata! — esclamò Kennedy. — Qual è il problema, Jenner? Siamo in pericolo?

— È possibile, signore. Se volete andarvene, potete farlo appena la Presidentessa avrà abbandonato i locali. C’è una via d’uscita attraverso il garage sotterraneo. Ma restate dove siete finché il suo gruppo è in corso di uscita. Per favore — aggiunse. E dopo un attimo: — Signore.

La Presidentessa e il suo entourage vennero giù lungo la scala. Li accompagnavano vari agenti del Servizio Segreto, tre dei quali donne; alcuni agenti della Polizia Distrettuale con alla testa il Capitano Glenn; il colonnello di collegamento del WAC coi codici delle armi nucleari; quattro o cinque uomini in borghese che stavano facendo di tutto per dire qualcosa alla Presidentessa mentre scendeva, a passi misurati e con una mano sulla ringhiera. E lei riusciva a rispondere a ciascuno di loro. Non ero mai stata d’accordo con la politica di Nancy, ma dovevo ammettere che aveva un aspetto presidenziale, anche nei ritratti.

Appena la Presidentessa fu nell’ascensore, gli uomini del Servizio Segreto rimasti in sala tornarono sulla scala, e quelli che erano stati a colloquio con lei furono autorizzati a scendere. Fra loro un gruppetto che attrasse subito i miei occhi: Dom, o meglio i tre Dom, seguiti da due russi e da un paio d’altri anch’essi probabilmente scienziati, reduci dal loro incontro con la Presidentessa.

Si fermarono quasi alla base della scala. Anch’io mi fermai. Nella sala c’era stato un improvviso mormorio, come di gente che trattenesse il respiro o mandasse soffocate esclamazioni di stupore e paura. Non mi resi conto di quel che significavano… non di preciso. Pensai solo che dalle scale scendeva meno gente di quanta credevo che ce ne fosse al piano di sopra. Ma già non li guardavo più.

Nell’aria c’era stato una specie di fremito… suppongo che avrei potuto chiamarlo un fremito di silenzio, quel calo di sonorità che si avverte in un jet dopo un improvviso calo di pressione negli orecchi.

E poi: — Scusami — disse una voce dietro le mie spalle, una voce che conoscevo molto bene, — ma penso che tu e io dovremmo fare due chiacchiere, non è così, Nyla?

— Naturalmente, Nyla — dissi. E mi volsi a guardare me stessa negli occhi. Stava sorridendo.

C’era qualcosa nel suo sorriso che m’indusse ad abbassare lo sguardo fra i nostri due corpi. Aveva le mani unite fra loro all’altezza della cintura, e da esse spuntava la lunga lama affilata di uno dei coltelli del buffet, puntato nel mio addome.

Davanti al volto dell’uomo c’era un oggetto — forse avrebbe potuto esser chiamata un’immagine — delle dimensioni di un pallone da spiaggia. Era composto da punti di luce. Vista dall’esterno una galassia avrebbe avuto circa quell’aspetto, se le galassie fossero così fitte di stelle. Molti punti di luce erano di un azzurro pallido, ma all’interno della sfera c’erano vaghe strisce di verde, giallo, arancione e anche rosso, come le linee di cancrena che s’irradiano da una ferita infetta. All’esterno della sfera c’era un circolo di quelli che avrebbero potuto essere specchi, riflettenti il volto preoccupato dell’uomo… solo che non erano specchi. Alcune di quelle immagini erano calve, altre avevano i capelli lunghi, o corti. Ve n’erano di abbronzate e di pallide, di paffute e di magre. — Adesso che l’abbiamo cartografato — disse l’uomo seduto, — penso di vedere il problema nella sua reale estensione. Ho già misurato le armoniche fino al sesto ordine di grandezza, e si stanno ancora propagando. — Fece una pausa e cercò segni di disaccordo sugli altri volti. Non ve ne furono. — Se la cosa continua — disse con calma, — ci sono novantanove probabilità su cento che entro un anno standard le perturbazioni saranno a tutti gli effetti totali e irreversibili.

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