Frederik Pohl
L’invasione degli uguali
È abbastanza usuale fornire un romanzo d’una premessa, per avvertire che i personaggi sono fittizi ed ogni riferimento a persone reali, decedute o viventi, è puramente casuale. Nel caso di quest’opera ciò è addirittura indispensabile, malgrado il fatto che vi figurino persone il cui nome è divenuto famoso in vari campi. La ragione di questo è che, in ciascun caso, i personaggi qui ritratti sono ciò che i personaggi reali avrebbero potuto essere… se fossero stati qualcun altro.
16 Agosto 1983
Ore 20,20 — Nicky DeSota
Quando cominciò a suonare il telefono avevo una mano sulla leva del cambio, pronto a scattare in seconda, e l’altra protesa fuori dal finestrino per segnalare la svolta a sinistra. La mia attenzione era concentrata sul poliziotto piazzato al centro dell’incrocio, che sembrava non volerne sapere di lasciar proseguire il traffico sulla Meacham Road. Avevo la testa satura di rate ipotecarie facoltative, di percentuali e di prestiti governativi, e mi stavo chiedendo se dopo cena avrei avuto il tempo di andare a fare una nuotata con la mia ragazza. Era Giovedì. Dunque un’ottima serata per chi frequentava la piscina visto che non di rado, nei giorni lavorativi, il bagnino abbassava le luci e chiudeva un occhio se in giro c’erano dei topless.
Lo squillo mandò in frantumi quelle riflessioni. Detestavo lasciare che il telefono continuasse a suonare. Decisi di correre il rischio. Tolsi la mano dal cambio e sollevai il ricevitore. — Qui Dominic DeSota, sì? — dissi. Proprio in quel momento il poliziotto ricordò che c’era traffico in attesa sulla Meacham, e con un gesto perentorio mi ordinò di svoltare a sinistra.
Così ogni cosa accadde nello stesso istante.
Il conducente del tram interurbano vide che stavo esitando e cominciò ad attraversare l’incrocio, giusto mentre premevo il pedale del gas. La centralinista mitragliò una frase che avrebbe potuto essere cinese o dialetto choctaw. Non si trattava dell’uno né dell’altro, era solo che stava sbagliando la sintonia. Sapete com’è quando il loro turno sta per finire e si sentono ammosciate, o non ne possono più, e danno una bottarella alla manopola senza preoccuparsi se quella sia esattamente la vostra frequenza, no? Non compresi una parola di quello che disse. E non me ne importò niente, comunque, perché all’improvviso di fronte a me ci furono le venti tonnellate del tram con rimorchio, troppo vicino per potermela cavare inchiodando i freni. Il tram non poteva sterzare. Dovetti farlo io. Una sola era la direzione che potevo scegliere per non andare a sbattere, e sventuratamente m’accorsi che collimava in pieno con la posizione del poliziotto.
Non lo travolsi.
Questo fu tuttavia per merito suo, più che mio. Si tuffò fuori strada. Letteralmente fuori dalla carreggiata. Appena abbastanza veloce da far sì che gli levassi il lucido dagli stivali, invece di maciullargli i piedi.
Non potei biasimarlo quando mi sbatté in mano la contravvenzione. Io avrei fatto lo stesso. Avrei fatto di peggio anzi, e non gli avrei dato torto se m’avesse rincorso a calci intorno alla vettura, cosa che non fece. Si limitò a tenermi sulle spine per tre quarti d’ora buoni, parcheggiato sul bordo della strada di fronte alla riserva forestale, con tutti i pendolari in transito che si voltavano a osservare quel sempliciotto che si beccava una multa mentre loro proseguivano. Se la prese comoda. Per cominciare mi fece tirar fuori i documenti e andò a studiarseli nella sua auto. Poi tornò a dirigere altre congestioni del traffico intanto che ci ruminava sopra. Quindi venne a domandarmi la carta d’identità, volle sapere tutto sul mio lavoro, da quanto tempo abitavo nella zona di Chicago e come e perché non sapessi che un’auto deve dare la precedenza ai tram.
Fra una pausa e l’altra ne approfittai per occuparmi del telefono. Nel mio lavoro si vive attaccati al telefono; se qualcuno fa il numero dell’agenzia con l’idea di accordarsi su un’ipoteca, e voi non siete svelti a spalmare balsami sulle sue incertezze, quello non ci mette niente a chiamare la concorrenza. Inoltre in quella particolare chiamata m’era parso di captare un tono preoccupato. Ma i miei sforzi furono vani. Mai che vi capiti due volte di fila la stessa centralinista, naturalmente. Quella che mi rispose trovò molto umoristica la mia supposizione che loro non avessero di meglio da fare che frugare fra le schede, in cerca della registrazione di chiamate già regolarmente passate al destinatario. Di solito, quando mi mostro insistente, si scandalizzano. «Ma avete un’idea , Mr. Dominic» mi aveva accusato una, «di quante sono le schede che devo leggere prima di trovare la vostra?»
Le avevo fatto notare: «Anche un milione, suppongo, finché continuate a guardare sotto il nome sbagliato. Il mio non è Mr. Dominic. E Mr. DeSota. Dominic DeSota».
Quando puntualizzai quel particolare, lei non fece una piega. Invece: — Non siete neppure sicuro che la chiamata fosse sulla vostra frequenza — disse, indignata come se mi sospettasse d’esser stato io a pasticciare con mezzi occulti sulle loro manopole. — Poteva esser stata diretta a qualcuno con un numero del tutto diverso.
— Possiamo levarci il dubbio guardando se c’è una scheda a mio nome — la incoraggiai. Ma il poliziotto stava facendo ritorno per domandarmi se i miei genitori fossero cittadini di una potenza straniera o forse per sapere se avevo avuto malattie contagiose. Sembrò abbastanza seccato nel constatare che perdevo tempo al telefono invece di meditare pentito sopra i miei peccati. — Lasciamo perdere — dissi alla centralinista.
Presi il modulo del verbale. Diedi qualche leccata (metaforica) agli stivali dell’agente. Giurai (con fervore) che non lo avrei fatto mai più, e tenendomi cerimoniosamente sotto il limite di velocità mi allontanai verso la mia solitaria abitazione da scapolo, augurandomi che almeno la giornata non finisse male. Non doveva finir male. Non c’era alcun sintomo che potesse farlo pensare. Greta non rispose al telefono. Questo significava che era ancora fuori a far compere o qualcos’altro. Da lì a quando fosse tornata, la piscina nella Riserva Forestale Mekhtab ibn Bawzi avrebbe chiuso per la notte. E io m’ero lasciato sfuggire dalle mani una possibile ipoteca. Non ero neppure riuscito a richiamare il cliente per tenere in caldo l’affare.
E mi chiesi, fui costretto a chiedermelo, se attraverso il crepitio elettrostatico di quella telefonata abortita non avessi veramente captato (ma l’avrei giurato) le parole «… all’FBI».
Quello che volevo diventare, all’inizio, era un agente immobiliare. Be’… no, diciamo la verità e al diavolo: quello che realmente desideravo era essere uno scienziato di qualche genere. Ma quello non è un impiego che renda, così quando entrai al college fu per acculturarmi sulle proprietà immobiliari.
Poi deragliai sulle ipoteche.
Quando confesso a qualcuno che il motivo di quella decisione sta nel fatto che un sensale d’ipoteche fa una vita più interessante di un agente immobiliare, mi guardano con tanto d’occhi. Però è vero. Trattare un’ipoteca può essere perfino eccitante. State facendo realizzare i sogni di qualcuno, capite? E fra la gente con cui avete a che fare nessuno è più interessante dei sognatori. Talvolta quei sogni mi preoccupano un po’, perché chi li sogna sono patetiche coppie di giovani appena sposati: non so mai se ce la faranno a starci dentro, con le rate e con gli interessi del 5,5 o magari del 5,8 per cento. Ma bene o male pagano. Si fanno prestare migliaia di dollari e tirano la cinghia per diluire le rate in soli due o tre anni, per avere la villetta coperta di rampicanti dei loro sogni. E io sono quello che li aiuta a trasformare questo sogno in realtà.
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