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Frederik Pohl: L'invasione degli uguali

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Frederik Pohl L'invasione degli uguali

L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos. Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Aprii la valigetta, allineai la prima mezza dozzina di fogli e mi guardai attorno, sentendomi a posto e in pace con tutti. Era interessante, per uno che non aveva mai messo piede in un tribunale del traffico. Il banco del giudice era all’interno di una specie di recinzione, fiancheggiato da due bandiere. A sinistra c’era la Vecchia Stelle e Strisce, con le sue quarantotto stelle su sfondo blu; a destra quella bianca dell’Illinois. E fra loro…

Fra loro, sul muro, c’era una scritta. Diceva:

VIETATO FUMARE
VIETATO MANGIARE
VIETATO BERE
VIETATO LEGGERE
VIETATO SCRIVERE
VIETATO DORMIRE

Dunque quel pomeriggio non sarebbe stato produttivo come avevo supposto.

In via sperimentale decisi di tenere aperta la ventiquattr’ore sulle ginocchia, ma l’esperimento si stava già rivelando fallimentare: un tipo grassoccio con l’uniforme del Dipartimento di Polizia di Barrington era già in marcia verso di me per vedere cosa stavo facendo. Però non c’era un divieto contro il fatto di tenersi semplicemente sulle ginocchia materiale per scrivere o da leggere, cosicché non mi ordinò di metterlo via. Ma chiunque avrebbe potuto vedere che aspettava appena un indizio: il fruscio della penna, una parola abusivamente letta con la coda dell’occhio, e le sue manette sarebbero state inesorabili.

Lo tranquillizzai col mio sorriso da bravo cittadino e mi volsi all’uomo che sedeva due posti alla mia sinistra. — Calduccio qui dentro, no? — dissi. — Si direbbe che abbiano acceso il riscaldamento.

— Il riscaldamento qui non funziona — rispose. Non disse altro. Non c’erano cartelli che vietassero di chiacchierare, però lui non voleva correre rischi. Alla mia destra una voce spiegò:

— Funziona benissimo, solo che questo tribunale non può permettersi di far salire la bolletta dell’elettricità. — Mi girai. Un giovanotto snello e dall’aria vivace mi stava sorridendo. Indossava giacca e pantaloni candidi come la neve, e sulla sedia vuota accanto a lui era deposto un panama anch’esso bianco. Roba fine e delicata, pensai. — Un guaio che qui sia vietato dormire, no? — aggiunse. — Specialmente dopo che uno è stato tenuto sveglio tutta la notte da quel maledetto fracasso.

Ancora quei rumori. Rivelai che io non avevo sentito cadere una piuma, e tanto lui che l’individuo alla mia sinistra furono felici di fornire particolari. Un rombare dal cielo, capisce? No, non come quello di un aereoplano: con un aereoplano potete distinguere il motore; quello non era un motore, era più come una specie di ruggito… anche se, ripensandoci, sembrava provenire dalla zona dell’aeroporto. Midway? No, non Midway, semmai quel piccolo campo d’aviazione privato a nord ovest. Frutteto Vecchio lo chiamano, anche se qualcuno vuole cambiargli il nome in Aereoporto O’Hare. Ma, ragazzi! Quel frastuono era veramente qualcosa. All’esclamazione parecchi si volsero ad annuire — tutti salvo io, che non potevo vantarmi d’aver udito — e probabilmente saremmo andati avanti a parlarne per un’aitra mezz’ora se l’usciere del tribunale non avesse annunciato: — Suo Onore Timothy P. Magrahan. Tutti in piedi.

E ci alzammo. Sudando nella toga di seta nera Suo Onore entrò, e girò attorno lo sguardo di un attore che valuta senza alcun entusiasmo una misera platea. Quando ci venne consentito di sedere di nuovo tossicchiò ed esordì con un breve discorsetto:

— Signore e signori, molti di voi, oggi qui presenti, sono accusati d’infrazioni alle norme del traffico. Ora, io non so come voi la pensiate in merito, ma in quanto a me, non intendo prendere cose simili alla leggera. Un’infrazione al codice stradale non è mai da ritenersi lieve o irrilevante. Assolutamente mai. Un’offesa al traffico è un’offesa contro il sistema dei trasporti civili. E un’offesa contro il sistema dei trasporti è un’offesa contro i bravi popoli che ne rendono possibile il funzionamento… i nostri amici del Medio Oriente, incluso lo stesso Mekhtab ibn Bawzi. E un’offesa contro i nostri amici del Medio Oriente è un’offesa contro i principi di tolleranza religiosa e di democratica amicizia fra popoli che…

Non fui troppo sorpreso quando il giovanotto vivace dal vestito bianco mi sussurrò all’orecchio che il giudice Magrahan s’era candidato per la rielezione, il prossimo Novembre. Mentre lui proseguiva con l’informarci che un’offesa contro il Corano era un’offesa contro la religione in generale, inclusa la nostra giudaico-cristiana, cominciai a capire che quella mia contravvenzione poteva essere una cosa seria. L’unica speranza che avevo di cavarmela a buon mercato stava nella possibilità che il firmatario del verbale non si presentasse in aula. Ma quella fortuna non l’avevo avuta. Lungo la parete destra dell’aula c’era una panca, e fra gli agenti li seduti — due della polizia statale, gli altri con uniformi di comuni diversi — c’era la mia conoscenza dell’incrocio sulla Meacham Road. Sapeva che io ero in aula. Non diede alcun cenno d’avermi riconosciuto, ma di tanto in tanto m’accorsi che guardava dalla mia parte.

Il primo caso che andò davanti alla Corte fu una donna giovane e malmessa, con un pargolo che frignava nella carrozzina, colpevole d’aver guidato a 68 miglia all’ora in un tratto dove il limite era di 60 miglia. Venti dollari di multa e sospensione della patente per sei mesi. Il secondo caso era più grave: guida in stato di ubriachezza, inosservanza di un segnale di «stop» e svolta pericolosa. Si trattava di un giovane neppure ventenne, e non poté uscire libero dall’aula: un poliziotto lo portò via ammanettato, in attesa della sentenza definitiva, e mentre usciva potei vedere che si guardava i pollici impensierito, come se non si aspettasse di goderne ancora a lungo.

Misi da parte la valigetta e strinsi i denti. Non ero il solo a non preoccuparmi più del caldo, lì dentro. La strategia elettorale del giudice Magrahan sembrava ormai chiara: perdere il voto di chi gli capitava sotto le grinfie gli costava molto meno di quel che avrebbe guadagnato indossando la candida armatura del crociato in difesa della sicurezza delle strade nazionali.

C’era inoltre da considerare — e lo considerai — che molti di coloro che attendevano la sentenza provenivano da altri comuni, come il sottoscritto, e di conseguenza il giudice poteva non tenerne conto nel suo conteggio dei voti.

Trascorse così una mezz’ora durante la quale il giudice fece sentire il peso della giustizia a una ventina di persone, l’una dopo l’altra. Decisi che quella doveva essere la mia settimana nera. L’Agente Capo Nyla Christophe m’aveva fatto passare un’ora d’inferno, ma alla fine ero riuscito a venirne fuori. Con quel giudice invece non avevo speranza. Nel frattempo il mio vicino in completo bianco s’era messo a girare qua e là nell’aula come un amico di famiglia a un picnic, fermandosi a chiacchierare con questo e con quello. Ma solo quando lo vidi chinarsi a parlare all’orecchio del poliziotto che mi aveva multato cominciai a prestargli davvero attenzione. Il poliziotto lo ascoltò, si volse a gettarmi un’occhiata poco amichevole, tornò ad ascoltarlo, ed io m’irrigidii. Allorché un paio di minuti più tardi i due uscirono insieme dall’aula, sempre parlando fra loro, fui tentato di seguirli. Ma all’estremità interna della mia fila stazionava il poliziotto che sorvegliava il buon comportamento del pubblico, e costui mi dissuase dall’alzarmi con un’occhiata cupa. Rimasi seduto. Per un po’. Quando, due minuti dopo, la curiosità ebbe la meglio sulla prudenza, era già troppo tardi.

— I gabinetti? — sussurrai al sorvegliante. Lui mi indicò col pollice esattamente la porta che speravo. Ma quando fui lì potei soltanto constatare che l’uomo in bianco e il poliziotto s’erano volatilizzati.

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