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Frederik Pohl: L'invasione degli uguali

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Frederik Pohl L'invasione degli uguali

L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos. Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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La sola cosa che riuscii a farfugliare storditamente fu: — Ascoltate… non ho fatto altro che levarmi quel dannato pezzo del costume!

Le stranezze che accadono… le domande che restano senza risposta!

Perché tutto ad un tratto gli abitanti di Los Angeles si lamentano che la loro dolce aria, profumata dagli aranceti, è invasa da foschie di gas quasi irrespirabile?

Cosa ha spinto ventimila pacifici sudditi dello zar a marciare, all’improvviso, nelle strade di Kiev intonando canti rivoluzionari?

Perché tante persone vengono ricoverate in manicomio con diagnosi di schizofrenia paranoica, tutte caratterizzate dalla convinzione d’essere segretamente spiate da qualcuno?

Perché si verificano senza preavviso cose tanto incomprensibili?

17 Agosto 1983
Ore 1,18 del mattino — Nicky DeSota

Ero sceso in città per la Daley Expressway migliaia di volte prima d’allora. Mai in quel modo, però. Mai con le sirene spiegate e le luci azzurre che balenavano sulle carrozzerie di quelle grosse Cadillac. A quell’ora del mattino le auto in transito non erano molte, e anche quelle poche s’affrettarono a levarsi di mezzo quando videro i lampeggiatori della macchina del Chicago Police Department che ci apriva la strada. Arrivammo in città in ventun minuti netti. Più veloci del tram; ma furono i ventun minuti più lunghi della mia vita.

Nessuno volle dirmi una parola. — Per quale motivo vengo arrestato?

— Chiudi la bocca, Dominic.

— Ma cos’ho fatto?

— Lo scoprirai da te.

— Avete ordine di non dirmi niente?

— Ascolta, ragazzo, per l’ultima volta tappati la bocca. L’Agente Capo Christophe ti dirà quello che vuoi sapere… anche qualcosa di più, magari!

«Ragazzo» mi chiamava. Costui era il gorilla alla mia destra, inzuppato da capo a piedi dopo il suo tuffo in piscina, e dimostrava almeno un paio d’anni meno di me. Ma c’era una differenza fra noi: io ero il prigioniero, lui quello che non voleva dirmi perché lo fossi.

Non c’era nessuna targa fuori dallo stabile per uffici sulla riva del Wabash, solo un portiere notturno che si fece da parte senza aprir bocca. Nessun nome anche sulla porta dell’ufficio al ventesimo piano. E nessuno neppure nell’anticamera, dove mi spinsero seguitando a ignorare le mie richieste. Ma una di esse, se non altro, aveva trovato risposta appena gli occhi m’erano caduti sulla foto appesa al muro, dietro una scrivania nell’ingresso. Avevo riconosciuto all’istante quella faccia illustre (chi non la conosceva?), severa come una vecchia tartaruga, inflessibile quanto una valanga.

J. Edgar Hoover.

Il messaggio telefonico non era stato un garbuglio completo, dopotutto. Ero nelle mani dell’FBI.

Non so se sia vero che davanti alla morte uno si vede scorrere negli occhi tutta la sua vita. So però che nei minuti in cui venni lasciato solo in quella stanzetta rivissi tutte quante le mie malefatte. Non solo la faccenda del topless e la sterzata che per poco non era costata la pelle a un poliziotto di Chicago. Tornai più indietro. Cominciai dalla volta che avevo pisciato contro il muro posteriore della Chiesa Presbiteriana dell’Uliveto, in Arlington Street, quando avevo nove anni e tagliavo dal vicolo per andare alla scuola domenicale. E il compito che avevo copiato, all’esame d’ammissione al «college». E la falsa richiesta per risarcimento danni che avevo fatto dopo un incendio nel dormitorio (vi avevo incluso oggetti personali in realtà appartenuti a un mio compagno dell’Alpha Kappa Nu). Riesaminai perfino fatti che la mia memoria aveva censurato, ad esempio la sera che andai molto vicino ad avere guai con gli arabi. Non era un ricordo di cui andare orgoglioso. Io e un mio compagno delle scuole superiori, Tim Karasueritis, ci eravamo procurati tre bottiglioni di birra di contrabbando per controllare fino a che punto eravamo virili. Non fu un’esperienza malvagia, finché si trattò di bere. Ciò che la rese antipatica fu quando vomitai tutto quanto all’angolo di Randolph e Wacker, proprio davanti alla più grossa e ricca moschea di Chicago. E dopo che ebbi insozzato ben bene il marciapiede fu il turno di Tim. Mentre gli stavo reggendo la testa alzai lo sguardo. E incontrai quello di un Hagji, barba bianca e turbante verde, che ci fissava con occhi furiosi e accusatori. Orrido spettacolo! Suppongo che anche gli arabi abbiano figli adolescenti, comunque fui sicuro che stavamo per passare un brutto quarto d’ora. Non disse verbo. Ci fulminò con le pupille, quindi si volse ed entrò svelto nella moschea. Forse poi tornò fuori, con l’equivalente arabo della polizia, ma per quel momento eravamo già a parecchi isolati di distanza correndo (dovrei dire zigzagando, visto che eravamo ubriachi) come avessimo la morte alle calcagna.

Oh, se mi frugai la coscienza! Esaminai ogni più piccola offesa alla legge che avevo fatto oo meditato di fare, senza trovare nulla che potesse lontanamente spiegare quell’assalto dell’FBI alla mia persona nel bel mezzo della notte.

Dopo dieci minuti mi tornò una certa baldanza e decisi di spiattellare a qualcuno quella verità. Ma con me non c’era nessuno. Mi avevano spinto a sedere in un locale piccolo, quasi senza mobilio, infischiandosene del fatto che indossavo soltanto un costume bagnato. Si stava asciugando, certo, però da qualche parte c’erano delle finestre aperte da cui la brezza fredda del Lago Michigan arrivava fin lì, passando sotto la porta (la porta chiusa , come scoprii quand’ebbi finalmente il coraggio di girare la maniglia).

Divertente, pensai, che mi avessero perquisito con tanta cura mentre indossavo solo un costume da bagno. Chiaramente secondo loro esisteva l’ipotesi che mi portassi addosso magari una lametta da barba, e che avrei potuto usarla per assalirli tutti quanti, o che (supposi) conscio dell’enormità dei miei crimini mi ci sarei tagliato le vene, sfuggendo così a quelli che potevano essere i loro progetti su di me.

Per loro fortuna non ero invece riuscito a ricordare nessun imbarazzante particolare del mio passato che giustificasse l’idea di suicidarmi. Essere arrestato senza motivo era antipatico, ma non potevo farci niente. Anzi lì non c’era da fare niente di niente. Da dietro una griglia posta molto in alto un altoparlante emetteva musica a basso volume, violini mi pare, roba da capelloni. C’era una scrivania. Visto che il piano era totalmente vuoto pensai che forse nei cassetti c’era qualcosa. Ma quando cominciai a innervosirmi e diedi uno strattone a una delle maniglie, constatai che il cassetto era chiuso, come la porta. Dietro la scrivania c’era una poltroncina girevole, e davanti una seggiola di legno. Nessuno era lì a dirmi su quale era mio dovere sedere, comunque mi rimisi sulla sedia.

Imprecai contro il freddo, mi strinsi le braccia al petto e cercai di pensare.

Giusto allora, senza che avessi sentito rumori all’esterno, la porta si aprì e l’Agente Capo Christophe fece il suo ingresso.

L’Agente Capo Christophe era una donna.

L’Agente Capo Nyla Christophe non fu la sola che attraversò la soglia, ma non c’erano dubbi su chi fosse: lei era il boss. Quelli che la seguivano, due uomini e una donna grassoccia di mezz’età, dimostravano quel fatto coi loro atteggiamenti corporali.

Ci misi un po’ per superare la sorpresa. Naturalmente tutti sapevano che l’FBI aveva cominciato a reclutare agenti in gonnella già da tempo. Nessuno però si sarebbe mai aspettato di vederne uno. Erano come le guidatrici di taxi o le donne medico: conoscevate la loro esistenza perché quando una si mostrava in pubblico un cinegiornale la riprendeva, e quando poi andavate al cinema potevate vederla. Ma questo non succedeva con le agenti dell’FBI, ovviamente. La loro storia personale non conteneva abbastanza interesse umano da meritare un servizio nei cinegiornali settimanali. Un operatore che ne avesse ripresa una sarebbe finito probabilmente nei guai, magari accusato d’imprudenza professionale per aver esposto un pubblico ufficiale all’eventuale vendetta di qualche criminale. E costui si sarebbe ritrovato sotto interrogatorio in una stanzetta nuda, senza sapere se sarebbe morto o vissuto…

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