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Frederik Pohl: L'invasione degli uguali

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Frederik Pohl L'invasione degli uguali

L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos. Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Quando infine, mezz’ora più tardi, l’impiegato chiamò il mio nome, il giudice confabulo sottovoce con un altro usciere. Poi mi fissò accigliato. — Mr. DeSota — brontolò. — Il pubblico ufficiale che vi ha notificato la convocazione in quest’aula è stato chiamato altrove da urgenti affari di polizia, e non può dunque testimoniare contro di voi. Di conseguenza, a termini di legge, non mi resta che chiudere il caso. Voi siete ancora un uomo libero, Mr. DeSota. E se posso dirlo, siete anche un uomo molto fortunato.

Fui perfettamente d’accordo con lui.

Ero così felice d’essere uscito senza danni da quella situazione che solo a mezza strada verso casa mi resi conto d’aver lasciato suonare il telefono senza rispondere. Fermai a una stazione di rifornimento, e intanto che mi facevano il pieno richiamai il Centro Messaggi. Stavolta non avevano fatto pasticci con la sintonia, e l’operatrice aveva scritto ogni parola, cosicché fu il testo stesso della chiamata a lasciarmi perplesso. Mi venne ripetuto con puntigliosa chiarezza:

— Non è necessario che lei sappia il mio nome, né perché mi occupo di quello che le succede, né perché io so chi è lei e cose simili. Ma se vuole aiuto da Lady Senzapollici ordini un sandwich al tonno al Carson Pirie Scott Coffee-Shop, questa sera alle sei.

— E questo è tutto? — chiesi.

— Sì, signore — rispose la centralinista, molto dolce, molto competente. — Desidera che ripeta il messaggio? No? In tal caso mi lasci dire, signore, che sono proprio i messaggi occasionali di questo genere a rendere il mio lavoro molto molto divertente! Buonasera, Mr. DeSota, e tante grazie.

— Grazie a lei, Voce di Miele — dissi, e restai lì a fissare il parabrezza finché il benzinaio bussò al finestrino. — Scusi — dissi, e tirai fuori il portafoglio… sessantanove cents al gallone! Se avessi notato i prezzi di quel distributore non mi sarei fermato lì neppure con tutte le gomme a terra.

Ma il pensiero mi svani subito dalla mente; ero troppo occupato ad arrovellarmi su quel messaggio. E sulla falsa identificazione compiuta dall’FBI. E sulla facilità con cui me l’ero cavata al tribunale del traffico. E sulle varie altre stranezze che stavano infestando la mia vita e il mondo. In circostanze normali avrei ignorato una comunicazione così sibillina. Era proprio il genere di situazione melodrammatica da cui una persona di buon senso preferisce stare alla larga. Dedicare tempo a quella faccenda avrebbe significato, tanto per cominciare, rubare tempo prezioso al lavoro che mi forniva di che vivere, rinunciando al colloquio con qualche cliente desideroso di stipulare un’ipoteca. Il mio boss non ne sarebbe stato entusiasta. E la cosa si presentava abbastanza equivoca. Andare in quel posto poteva farmi finire, magari, in un guaio da cui non sarei uscito con facilità.

Naturalmente ci andai.

Una volta Greta ed io stavamo leggendo insieme un romanzo dove uno dei personaggi pronunciava all’incirca questa frase: «La vidi entrare in un grande magazzino, uno di quei posti dove le donne sono nel proprio elemento ma in cui pochi uomini le seguono volentieri». E Greta aveva protestato che quella frase denigrava le donne. — Alle donne non piace far compere — aveva detto. — È solo che devono farlo. Tocca a loro comprare il cibo o gli oggetti per la casa, e tutte le cose di cui una famiglia ha bisogno.

— Non comprano le automobili — avevo puntualizzato io.

— No, naturalmente. Non si occupano delle spese maggiori — era stata d’accordo lei. — Ma acquisti del genere si fanno solo una volta ogni qualche anno. Per tutto il resto bisogna provvedere con acquisti quotidiani. E se una donna spende un sacco di tempo a far compere, lo fa perché il suo lavoro è questo: valutare i prezzi, calcolare le necessità. È così che amministra il denaro del capofamiglia. E che le piaccia o meno, deve farlo comunque.

— Giusto, dolcezza — avevo sorriso io.

Il mio sogghigno non le era piaciuto. — No, Nick, dico sul serio! Non devi dire che alle donne piace far compere. Devi dire che questo è il loro lavoro.

— Però, Greta — avevo cercato di farla ragionare, — guarda la cosa obiettivamente, vuoi? Come puoi affermare che una donna è stata denigrata, quando di lei si è detto che il suo lavoro le piace? Anche a me piace il mio lavoro.

— Questa non è la stessa cosa — aveva brontolato lei, ma rinunciando al tono mordace, e poi aveva cambiato argomento. Sapeva essere accomodante. Non era una suffragetta, Greta. Non di rado dichiarava che se avesse avuto il diritto di voto non avrebbe saputo cosa farsene. Tuttavia c’era il fatto che aveva un buon lavoro come stewardess, e questo la rendeva un po’… be’, non voglio dire mascolina. Un po’ indipendente, certo. Ma quelle erano solo chiacchiere, naturalmente, e se mi fossi deciso a farle la domanda fatidica sapevo cos’avrebbe risposto. E una volta sposati avrebbe lasciato perdere quelle strane idee.

Idee che però mi davano un po’ da pensare, ogni tanto.

In quel momento le mie preoccupazioni erano assai più immediate. Ciò che mi aveva fatto ripensare a quella conversazione era stata la vista dell’interno del Carson Coffee-Shop, su cui la frase di quel romanzo avrebbe potuto essere appiccicata come un’insegna. C’erano almeno cento clienti sparsi nel salone — tovaglie verdi ai tavoli, sedie in velluto verde, piante in vaso dappertutto — e novantacinque di loro erano donne. Non c’erano uomini soli. Qua e là c’erano coppie, l’uomo generalmente più anziano e con un’aria da «Oh, cielo! Sono entrato nella toeletta delle signore!» stampata sul volto.

Suppongo che fu questo a farmi presumere che a lasciarmi il messaggio misterioso fosse stata una donna. Il che dimostra quanto siano degne di fiducia le mie intuizioni.

Venti minuti dopo, la terza volta che una cameriera anzianotta passò a chiedermi se volevo ordinare qualcosa, risposi di sì. Ci vollero altri venti minuti prima che il mio sandwich al tonno arrivasse.

E un quarto d’ora più tardi — mentre esibivo ancora metà del panino come segnale di riconoscimento — sentii qualcuno avvicinarsi a passi svelti alle mie spalle. L’uomo scostò la sedia e si sedette di fronte a me.

Lo conoscevo. Non portava più il panama e l’abito bianco, ma qualche ora prima quello era stato il suo colore.

— Be’, salve — dissi. — Avrei dovuto immaginare che era lei.

La cameriera si stava già muovendo; lui la incoraggiò con un cenno poi mi sorrise ampiamente. — Allora, come va? — esclamò, col tono di una vecchia conoscenza di lavoro. Ma se conosceva il mio nome non ne fece uso, limitandosi a — Parecchio che non ci vediamo, eh? — e altre frivolezze senza aspettare che gli dessi risposta. Quando la cameriera ebbe preso la sua ordinazione e se ne fu andata, abbassò la voce: — Non è stato seguito fin qui. E in sala non c’è nessuno che la sorvegli. Possiamo parlare.

Permisi a me stesso di tollerare ancora un po’ il mistero della faccenda. Raccolsi il mezzo sandwich e fra un boccone e l’altro lo studiai meglio. Decisi che aveva due, forse tre anni meno di me. Un volto aperto, lentigginoso, capelli color sabbia. Proprio il ragazzo della porta accanto, quello da cui non vi aspettereste mai atti meschini o comportamenti furtivi. Solo che si stava comportando parecchio furtivamente. — Di cosa stiamo per parlare? — chiesi, con la bocca piena di tonno e di mollica. — E con chi ho il piacere, comunque?

Ebbe un gesto impaziente. — Mi chiami Jimmy. Il nome non importa. Quel che conta è: cosa stava facendo ai Laboratori Daley?

— Ah, Jimmy! — sospirai tristemente. Rimisi nel piatto i resti del sandwich. — Questa è una cosa stupida — dissi. — Torni dall’Agente Capo Christophe e le dica che lo scherzetto non ha funzionato.

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