— Così siete immersi negli stessi indovinelli in cui navigavamo noi qualche giorno fa — disse il senatore, in tono neutro.
— Ho paura di sì — fu la mia risposta.
Si mordicchiò le labbra con aria pensosa. — E adesso che programmi avete, Dom? — chiese. — Intendete rimandarmi nel mio tempo o no?
— Penso che abbiano in mente questo per te, Dom — dissi. — In effetti credo che ci andremo tutti. Tu perché vivi là. Io e Larry perché possiamo dar loro informazioni utili alla loro difesa. E gli altri perché… be’, come prova vivente dell’esistenza di altri universi. — E perché sono una gran seccatura, pensai, ma non lo dissi: una coppia di scagnozzi dell’FBI e un sensale d’ipoteche, chi aveva bisogno di loro nel nostro mondo?
Mi decisi a inghiottire una forchettata delle mie uova in camicia. Erano fredde e insipide, comunque non avevo più molto appetito.
Quando la squadra delle pulizie entrò nel McCormick Place Auditorìum per prepararlo allo show «Stelle sul Ghiaccio» di quella sera, le luci disturbarono un pipistrello. — Come diavolo ha fatto a entrare? — brontolò il caposquadra. Ma il problema era come farlo uscire prima che aprisse il botteghino. Tuttavia la faccenda si risolse da sola. Il grosso pipistrello svolazzò attorno selvaggiamente per un po’. Infine, mentre la larga porta di servizio veniva aperta per far passare un carrello, indovinò l’uscita. Nessuno pensò più alle dimensioni insolite del volatile. Nessuno rifletté che questo poteva essere importante… finché nelle settimane successive gatti randagi, cani lasciati fuori casa la notte, e da ultimo anche esseri umani, non cominciarono a morire per il virus dell’idrofobia che il pipistrello aveva portato con sé.
27 Agosto 1983
Ore 8,40 della sera — Mrs. Nyla Christophe Bowquist
La direzione dell’albergo fu molto cortese ma mi fece sloggiare dal mio grazioso appartamento. Neppure l’intervento di Slavi riuscì a impedirlo, perché dopo l’occupazione della Casa Bianca tutti gli ultimi piani dell’albergo erano stati riservati alla Presidentessa e al suo staff. Ma il direttore mi scovò una camera al quinto piano, e per far cessare le sue giaculatorie sospirai che la trovavo ottima. Conteneva un letto per me e uno per Amy. A lei non dava fastidio ascoltare i miei esercizi, e certo non c’era nessun’altra ragione al mondo perché lei o io agognassimo alla nostra intimità. Non le visite di Dom, visto che Dom non era in circolazione. Non le chiamate telefoniche di mio marito, da Chicago, perché queste erano comunque rare. Neppure Ferdie, ormai, riusciva a spuntarla con le linee sovraccariche di Washington.
Questo era un sollievo, perché ancora non ero riuscita a chiarirmi le idee circa quello che avrei dovuto dire a Ferdie.
Non riuscivo a chiarirmi le idee su nessun fatto della mia vita, a quanto pareva. In primo luogo, rimanere in zona di guerra era assurdo e irragionevole. Ma in realtà ero in trappola. L’aeroporto era in mano al nemico, e così i ponti sul Potomac e quasi ogni strada che portava fuori dalla capitale, perché le truppe di quella gente avevano scaglionato posti di controllo praticamente dappertutto. Quando avevo smesso di gingillarmi con l’ipotesi se prendere o meno l’ultimo volo in partenza per Rochester, non c’erano più voli per Rochester, e si sentivano colpi d’arma da fuoco in tutti i quartieri della città, dove la gente s’era chiusa in caos.
La radio diceva che non si trattava di scontri gravi. Io non ero d’accordo. Quando guardavo dalla finestra vedevo colonne di fumo dalla parte di Anacostia, o la sommità mozza del monumento a Washington (i loro soldati avevano pensato che i nostri soldati avessero piazzato dell’artiglieria lassù), la situazione risultava fin troppo grave per i miei gusti.
Così, quando Jock McClenty bussò alla porta e andai ad aprire, ero preoccupatissima.
Non mi aspettavo buone notizie. Non riuscivo a immaginare da dove potessero sbucar fuori delle buone notizie, in quel deprimente e piovoso sabato sera. E nel vedere l’assistente di Dom, con a fianco l’uomo del Servizio Segreto, il mio primo pensiero fu che eravamo tutti quanti in arresto. — Mrs. Bowquist — disse Jock. — Si tratta del senatore. È tornato. In questo momento è qui all’albergo, e ci ha mandati per condurvi da lui.
Be’, quel che accadde fu che scoppiai in lacrime. Secchi di lacrime. Non so neanche perché, veramente. Forse perché me le ero tenute negli occhi già in tante diverse occasioni che ormai un niente bastava a farmi aprire i rubinetti. E ci volle un bel po’ prima di chiuderli. Scendemmo nell’atrio, oltrepassammo un posto di controllo della polizia, un altro del Servizio Segreto, salimmo in ascensore in un’altra ala dell’albergo, e a questo punto stavo ancora singhiozzando.
Di sopra, premendomi sul naso uno dei cinque o sei kleenex che l’uomo del Servizio Segreto mi aveva fornito (che simpatico addestramento davano a quei giovanotti!) uscii e mi guardai attorno. Era un appartamento che faceva sembrare quello da cui m’avevano sfrattata una capanna di contadini cambogiani. Un duplex, con tappeti alti fino alla caviglia. Finestre stile cattedrale in un salone dal soffitto alto dieci metri. La prima persona che vidi fu Jackie Kennedy, che in piedi davanti a una finestra parlava con qualcuno, e la seconda persona che i miei occhi misero a fuoco fu quel qualcuno stesso.
Era Dom DeSota.
— Dom! — gemetti, e corsi verso di lui, sempre tirando su col naso.
Era Dom, sicuro, ma non mi guardò come mi avrebbe guardato Dom, e non disse quel che mi avrebbe detto Dom, e non sorrise come avrebbe sorriso Dom. Quando lo abbracciai odorava di tabacco da pipa e di un dopobarba che non gli avevo mai sentito sul viso, e soprattutto fece una cosa che Dom non avrebbe fatto mai.
Mi spinse via.
Oh, lo fece gentilmente, perfino benevolmente, ma mi spinse via lo stesso. Cosicché ero annichilila dalla sorpresa quando Jackie mi mise una mano su una spalla e disse: — Nyla, cara? Lui è quello sbagliato.
Be’, le cose tornarono al loro posto allorché mi girai, perché quello giusto si trovava lì anche lui. Era a metà della scala semicircolare che portava al piano di sopra, all’appartamento della Presidentessa, ma appena mi vide venne giù di corsa e alla fine il mio abbraccio lo ebbi. Dapprima non disse niente. Si limitò a tenermi stretta. Anch’io strinsi lui, ed ero così felice che se Marilyn e Ferdie fossero stati lì, con un fotografo da una parte e un avvocato divorzista dall’altra, li avrei lasciati a godersi la scena senza minimamente guardarli. Poi lui rilassò un poco la sua stretta, mi guardò negli occhi, mi baciò e sospirò: — Oh, amore! — E gettò uno sguardo cauto alle sue spalle.
Sul pianerottolo la segretaria per gli appuntamenti della Presidentessa stava tossicchiando con aria impaziente. — Vai pure, Dom, adesso — dissi dolcemente. — Quando tornerai io sarò qui.
Così lui era sparito di nuovo, e Jackie stava cercando di spiegarmi quel che succedeva, e dall’altra parte Jock McClenty faceva la stessa cosa, e alla fine io riuscii a spiegare a loro che non m’interessavano tanto quei chiarimenti quanto la possibilità di rinfrescarmi un po’. E subito dopo mi fecero entrare in una stanza da letto che doveva esser stata disegnata per un califfo — specchi fin sul soffitto e, santo cielo, un Picasso autentico su una parete — oltre la quale c’era un bagno dove non mi meravigliai di trovare rubinetti d’oro.
Fu un bene che avessi avuto il modo di rimettermi a posto, perché quando uscii dalla stanza da bagno dello zar nella stanza da letto del califfo scoprii che questa era stata trasformata nel recinto di riunione per tutti noi.
Quando dico «tutti noi» non intendo affatto «tutti noi». Intendo più «tutti» e più «noi» di quel che abbia mai inteso dire in vita mia. Il mio Dom era tornato — la Presidentessa l’aveva rispedito fuori per confabulare privatamente con un paio di generali — e Dom ed io eravamo, naturalmente, i più grossi «noi» della mia vita. Ma li c’erano tre lui. E se ci aggiungevo la faccia di quello che avevo visto soltanto alla TV avrei potuto contarne quattro.
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