Jacqueline deglutì a vuoto e mandò un ansito… il rumore che emise fu un misto dei due. John le gettò un’occhiata apprensiva, poi si volse a Dom. Per un attimo aveva stretto i denti, a disagio quanto sua moglie, ma le sopracciglia inarcate rivelavano curiosità. — Lee Harvey Osvald? Aspetta un momento… non era… sì, ora ricordo, quel tipo che sparò al governatore del Texas?
— Proprio lui.
— Singolare — mormorò John Kennedy. Non sembrava esserci altro commento da fare. Era una sorta di ammazzaconversazione. Poi John trovò un sorriso. — Povera moglie mia! — disse, battendole un colpetto su una mano. — Mi chiedo che genere di vedova tu sia stata. Tu lo sai, Dom?
— Io… uh, non ricordo con precisione — disse lui in tono di scusa, e per qualche ragione mi parve che non stesse dicendo la verità. John annuì con aria assente. Aveva avuto la mia stessa impressione, era chiaro; ma venne salvato dall’imbarazzo di far altre domande da un maggiore dell’esercito, con cordoni dorati che gli pendevano dalle spalle, che entrò proprio allora nella camera. Era rasato di fresco e tirato a lucido, ma con gli occhi più stanchi che avessi mai visto; sembrava non aver dormito per tre giorni di fila, e probabilmente era così.
— Senatore DeSota? — chiese, perplesso, girando lo sguardo da un Dominic all’altro. — La Presidentessa vuole vedervi subito. Tutti e tre voi — aggiunse. E Dom, il mio Dom, mi diede un bacetto su una guancia e si alzò, lasciandomi.
Sedetti su un divano coi Kennedy. Suppongo che chiacchierammo. Non credo d’aver prestato molta attenzione a quel che dicevamo, perché avevo la mente aggrovigliata su altre cose. Compresa l’altra Nyla. Benché avessimo concesso delle pause al nostro match di occhiate, non avevamo perso interesse. Lei era in piedi davanti al tavolo del buffet, e l’assenza dei pollici non le impediva di destreggiarsi a meraviglia nel servire fette di formaggio al suo scimmiesco compagno e a se stessa. Anche se i suoi occhi non erano su di me ero certa che distoglieva lo sguardo un attimo prima che fossi io a fissarla. Non avevo alcun dubbio su questo, perché facevo altrettanto con lei. Avevo l’impressione che il suo interesse per me fosse ancor maggiore del mio, o forse il suo interesse si accentrava su riflessioni diverse. Non c’era solo curiosità in lei. C’era un proposito, benché non sapessi immaginare che proposito fosse.
Decisi che io e lei dovevamo fare due chiacchiere.
Non potei però mettere in pratica quella decisione, perché proprio mentre stavo pensando di alzarmi e andare da lei nel vasto locale entrò a passo svelto Lavrenti Djugashvili, quello vero. Sorrise, inarcò le sopracciglia elargendo la sua curiosità all’altra Nyla, ma fu decisamente verso di me che si diresse. — C’è di che confondersi! — esclamò, baciando la mano a me e poi a Jacqueline. — Che giornata difficile!
— Hai accompagnato qui i tuoi ragazzi? — domandò John Kennedy.
— Oh, sì, naturalmente. Zupchin e Merejkowsky, due brillanti fisici dell’Istituto Lenin per la Ricerca di Base. Poi sono stato informato che la mia presenza non era necessaria — aggiunse, un po’ acremente.
— Non ti ha dedicato molto tempo, eh? — annuì con simpatia il senatore Kennedy.
Lavi scrollò le spalle. — Non ho potuto scambiare una sola parola con la vostra Presidentessa — disse, allargando le braccia per mostrare il suo disappunto. — Ma mi sembra chiaro che i comunisti non le piacciono, incluso particolarmente me.
Il senatore si scurì in viso. — Neppure io sono in ottimi rapporti con lei — ammise. — Non siamo dello stesso partito. D’altronde ha ben altri pensieri per la testa, Lavi. Hanno catturato suo marito. Hanno occupato la Casa Bianca. Non ha molta voglia d’essere cordiale in questo momento, e soprattutto non vuole essere il primo Presidente dal 1812 ad avere forze nemiche nella stessa capitale.
— Oh, sì, questo è certo — annuì Lavrenti. — Specie da quando si nota una nuova attività fra gli invasori… — Tacque, guardandoci. — Non ne siete stati informati? Ma se perfino la televisione ne sta dando notizia! Dovrà pur esserci un apparecchio in questo appartamento monumentale. Coraggio, vediamo di rintracciarlo!
L’apparecchio c’era infatti, benché nascosto dietro due sportelli di mogano intarsiato. E le notizie che stava trasmettendo erano molte.
Nessuna di esse era buona.
Lo accendemmo nel bel mezzo della ripresa in diretta di un duro scontro a fuoco. E non si stava svolgendo in chissà quale terra lontana: era a pochi isolati di distanza da noi, all’estremità del Mall e tutto intorno al Campidoglio. Carri armati e cingolati da trasporto truppe sembravano avvicinarsi da dietro il palazzo della Corte Suprema, allargandosi come per prendere il Campidoglio da due lati. C’erano dei cadaveri laggiù. La telecamera zumò per riprendere più da vicino alcuni di essi, e avrei voluto che non l’avesse fatto. La regia staccò su un’altra telecamera, e sullo schermo apparve una fila di carri armati. Abbastanza strani. Non mi resi conto del perché li trovavo strani finché non sentii Lavi imprecare qualcosa: la frase suonò acre e velenosa, ma non potei capirla perché era in russo. Passò all’inglese per dire: — È una nuova arma, senatore!
D’un tratto riuscii a vederli nelle proporzioni giuste: erano carri armati, ma di piccole dimensioni: non più lunghi di due metri e mezzo, e alti meno d’un metro dal suolo, ciascuno con un grosso cannone che ruotava da una parte e dall’altra come la coda di uno scorpione. — Non abbiamo niente di simile in Russia — si lamentò Lavi.
— Neppure noi, in questa America — disse John Kennedy. — Radiocomandati, ci scommetto! Gesù santo, stanno sparando! — E infatti quei cannoni non erano giocattoli: facevano fuoco contro il Campidoglio, e ad ogni colpo grandi nuvole di fumo e rigurgiti di macerie esplodevano dai muri esterni dell’edificio.
La scena cambiò. Sullo schermo apparve il grande studio della NBC, in attività come quando ne facevano il loro quartier generale la notte delle elezioni. Dietro Tom Brokaw e John Chanceller c’era un’enorme carta murale con la situazione del Distretto di Columbia, e i due stavano illustrando quello che succedeva.
Non era necessario che dicessero molto. La carta parlava per loro. Pressoché un quarto della città era adesso ombreggiato di rosso — il rosso delle forze d’occupazione — ovvero tutta l’area circostante il Campidoglio che avevamo appena visto, la Casa Bianca, l’Ellisse, parte della zona intorno al Monumento a Washington, una vasta fascia lungo il fiume e piccoli punti isolati sparsi per il Distretto. Scaglionate lungo il perimetro c’erano luci rosse che segnalavano combattimenti in corso.
Brokaw stava indicando il Campidoglio. — L’ultimo loro attacco — disse, — è avvenuto senza preavviso appena quarantacinque minuti fa sulla Prima Strada e lungo la Constitution Avenue. Simultaneamente hanno aperto il fuoco in quasi tutti gli altri punti della città dove le nostre truppe fronteggiavano le loro. — Li elencò uno a uno, poi constatò: — Contro ogni aspettativa, ci risulta che vi sia stato un costante contatto telefonico fra il quartier generale degli invasori, alla Casa Bianca, e il nostro, situato in un punto del Distretto che non siamo autorizzati a rivelare. È ormai di dominio pubblico che gli invasori hanno catturato tre membri del Gabinetto e almeno i tre quarti dei Capi di Stato Maggiore col loro staff, oltre ad alcuni senatori, congressisti e varie importanti personalità politiche. Lo stesso Ronald Reagan è caduto nelle loro mani. Tutti gli ostaggi, così li ha definiti il nostro governo, hanno avuto il permesso di registrare messaggi che sono stati trasmessi telefonicamente. Ecco la voce del Generale Westmoreland…
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