E c’erano due me.
Avevo avuto una grande difficoltà psicologica ad accettare il fatto che esisteva un altro Dom oltre il Dom che amavo, ma signori miei, non seppi che cos’era una difficoltà psicologica finché non mi trovai faccia a faccia con un’altra me stessa. Mi fece ricordare la volta che, due o tre anni prima, Ferdie ed io eravamo andati a Winsconsin Dells per cercar di salvare il nostro matrimonio. Avevo lasciato il mio siamese, Panther, nell’appartamentino di Amy perché me lo tenesse lei, insieme alla sua gatta persiana Poo-Bear. Chi conosce i gatti sa cosa sia un’invasione di territorio: fu un incontro poco felice. La prima cosa che Poo-Bear fece fu di schizzare sopra uno scaffale colmo di chincaglieria, scaraventando al suolo metà degli animaletti di ceramica di Amy. E la prima cosa che fece Panther fu di schizzare sotto la libreria. Non soffiarono, né si sfidarono con minacciosi miagolii. Si limitarono a guatarsi dai due capi opposti della stanza per tutto il tempo che io restai lì… anche se poi Amy mi disse che mezz’ora più tardi si stavano già leccando a vicenda.
Fu molto simile a quel che accadde fra me e l’altra Nyla, benché fosse del tutto da escludersi la possibilità che ci leccassimo l’un l’altra. Lei sedeva in un angolo, fissando me e ogni tanto scambiando una parola con un individuo che le stava accanto, un tipo alto uno e novanta e largo come un armadio, dalla faccia poco raccomandabile. Io sedevo su un divanetto Queen Anne con la testa su una spalla di Dom, il mio Dom, e gli stringevo una mano, mentre lui provava a raccontarmi quali cose, quali stupefacenti cose, gli erano accadute dall’ultima volta che ci eravamo visti. E le due noi, cioè Nyla-io e Nyla-lei, continuavamo a fissarci a vicenda.
Sebbene la stessi studiando più attentamente di quanto non avessi mai fatto con un’altra donna, non notai che era priva dei pollici finché fu Dom a sussurrarmelo. Questa non era l’unica differenza. L’espressione del suo volto era diversa da qualunque espressione io avessi mai visto sul mio allo specchio… cinica? Falsa? Forse perfino invidiosa? Comunque fosse, lei era me.
E io ero molto, molto grata al cielo per il modo in cui il braccio di Dom mi cingeva le spalle.
Con tutto quello che stava succedendo non c’è da meravigliarsi se non notai subito l’altra cosa strana. Che ci fossero tre Dom nella stessa stanza era abbastanza spiacevole; la presenza di una seconda Nyla era peggio. Ma noi non eravamo i soli doppioni. Quando infine potei distogliere lo sguardo dall’altra Nyla abbastanza da prestare attenzione agli ospiti, vidi che Kennedy stava parlando con due uomini identici al mio vecchio amico Lavrenti Djugashvili, e costoro guardavano me.
— Shto ete , Lavi? — domandai all’uno e all’altro, imparzialmente, attraverso la camera. Entrambi si mostrarono perplessi.
Dom rise e mi strinse più forte contro la sua spalla. — Nessuno dei due è l’ambasciatore — disse. — In questo momento lui è all’aeroporto, ad accogliere certi scienziati russi che vengono a consultarsi con noi.
— Oh, Dio! — mi lamentai con una risatina, solo perché era meglio che piangere. — E quei due sono tutti ?
— Non ce ne sono solo due — spiegò, serio, — ma un numero infinito, temo. Di me e di te, però, ci sono soltanto un me e una te che contano. Cerchiamo di vederla a questo modo.
Così d’un tratto mi parve che ci fossero altri due di «noi» nella stanza, benché questi ultimi due fossero solo immaginari. E riuscivo a vederli chiaramente entrambi: Marilyn da una parte e Ferdie dall’altra, e le loro facce erano piene di angoscia, di rabbia e di accuse.
Era una fortuna che fossero solo immagini, almeno in quel momento, anche se più tardi sarebbero diventati fin troppo reali. Chiusi la mente a quei pensieri. — Se questa è una proposta — dissi, — la accetto. Non voglio che qualcosa ci separi ancora. A parte le mie tournée, dico.
— E a parte le mie campagne elettorali — sorrise lui. — Te lo prometto.
È stupefacente la facilità con cui potete fare una promessa che sapete quanto vi sarà difficile mantenere.
Tuttavia Marilyn e Ferdie esistevano, e noi dovevamo loro un minimo di discrezione almeno fino al momento in cui saremmo giunti a una spiegazione con loro. Malgrado tutto — malgrado le cose strane che stavano accadendo e il fatto che, appena fuori da quelle finestre, la mia patria veniva invasa — riuscivo ancora a preoccuparmi del comune senso del pudore. Specialmente quando notai che John Kennedy ci sbirciava con la coda dell’occhio non senza un filo d’apprensione, mentre parlava coi doppioni di Lavi.
Arrossii e mi raddrizzai sul divano. Non sgusciai fuori dal braccio di Dom, ma mi spostai un tantino. Lui ebbe una riflessione di quel genere nello stesso momento. Lo sentii assumere una posa più formale.
Subito dopo però tornò ad accostarsi a me, e il suo braccio mi cinse più forte. Orgogliosamente. Quasi con sfida. Oh, all’inferno, pensai: avevamo oltrepassato i limiti concessi alla discrezione. Se la nostra relazione era mai stata un segreto, adesso quel segreto non c’era più.
Il lusso di quell’appartamento non finiva coi rubinetti d’oro del bagno. C’era una cucina annessa, un cuoco dell’albergo, un aiuto-cuoco e una cameriera. — Mangiamo un boccone — disse Dom, il mio Dom. — È già tutto pagato dai contribuenti. — Così cenammo, e scoprii d’avere un formidabile appetito. Lo stesso avrei detto dei viaggiatori del Paratempo, che sembravano non aver toccato cibo da fin troppe ore e intenzionati a porvi rimedio. Facemmo anche conversazione. Io non vi presi parte molto attivamente, perché volevo sapere cosa stava succedendo ed ero più interessata ad ascoltare.
Fu Dom a dare il maggior numero di spiegazioni, e John Kennedy a fare il maggior numero di domande. — C’è un milione di queste linee temporali, Jack — disse Dom. — No, non un milione: un milione di miliardi, forse. Penso che la parola giusta sia infinità.
— Notevole — disse John. — Mai l’avrei immaginato. — Sedeva di fronte a noi tenendo lievemente una mano di Jackie, come Dom stava facendo con me. Desiderai che quando fossimo giunti alla loro età il nostro amore fosse vivo allo stesso modo, a dispetto del nostro infelice e adulterino inizio. (Ma c’erano state tutte quelle storie fra John e Dio sa quante donne, molti anni prima, e il loro matrimonio sembrava esser sopravvissuto).
— Possiamo raggiungere facilmente soltanto i più vicini — disse Dom. — Il dottor Dom, qui — e annuì amichevolmente verso quello che m’aveva visto piombargli addosso, e che scrutava il suo piatto di falafel con aria dubbiosa, — ne sa molto più di me sull’argomento.
L’altro Dom inghiottì il boccone. — Sono simili al vostro e al mio — aggiunse, — ma ci sono, naturalmente, varie differenze. In quello che vi sta aggredendo il Presidente è Jerry Brown.
— Jerry Brown! — borbottò John. — Di tutte le cose, questa è la più strana da credere.
— Ma è così. — L’altro Dom sollevò una forchettata di falafel e disse: — Ottime queste alghe. Dovrò vedere se qualcuno è capace di prepararle allo stesso modo, una volta a casa. E questo è un altro vantaggio del Paratempo, vedete? Imparare cose diverse che migliorino la qualità della vita.
— Non posso dire che il nostro abbia imparato qualcosa di buono finora, Dom — disse John con una smorfia. — Parlaci di queste altre linee temporali.
— Be’, ce n’è un paio dove Ronnie Reagan è Presidente.
— Ronnie ?
— Sì. E in queste Lyndon Johnson è stato Presidente vent’anni fa, dopo la tua presidenza. Solo che… — Esitò, come se avesse difficoltà a dirlo. — Solo che in quelle linee temporali tu sei stato assassinato durante il mandato, senatore. Da un individuo di nome — Lee Harvey Osvald.
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