Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Fu a quel punto che mi accorsi d’essere nudo. E avrei anche potuto non arrivare a quella constatazione se la voce non avesse detto: — Può anche alzarsi e vestirsi, adesso, e poi passare nell’ hover.

Il mio corpo ubbidiente indossò un paio di short, scarpe da tennis e una specie di maglietta di rete. Il tutto mi aderiva spiacevolmente, non tanto perché fosse della mia misura quanto perché a quel materiale sembrava non importare quali fossero le misure di chi lo indossava. Poi il mio corpo ubbidiente si mise in marcia dietro la donna (o uomo) per uscire da quel locale privo di porte. No, non c’erano porte. E neppure ne apparve magicamente una all’ultimo momento. Ciò che accadde fu che lui/lei s’incamminò verso il muro e continuò a camminare, e così feci io… insieme ad altri sette od otto corpi altrettanto compiacenti i quali appartenevano a persone vestite con un completino da spiaggia color nocciola identico al mio.

E in quanto a questo, eravamo davvero su una spiaggia. O non molto distanti. Il luogo era una sorta di aeroporto, una curiosa mistura di edifici decrepiti e strutture nuove di zecca, e quella era una calda giornata estiva, con la brezza marina che portava con sé un forte odore di alghe e di salmastro, e la risacca che frusciava sulla massicciata d’una strada piuttosto malridotta. Oltre il moncone di un palo da bandiera c’era un muro di cemento, sulla cui superficie erano state inserite conchiglie a formare una larga scritta:

— FLOYD BENNET FIELD —

Oltre il tetto del basso e squadrato edificio bianco da cui eravamo emersi (non c’erano porte neppure a guardarlo dall’esterno) un grande aereo dalle ali a delta si stava abbassando con un acuto sibilo di jet. Rallentò con rapidità incredibile, mise fuori i flaps, poi fece ruotare i motori e atterrò verticalmente, toccando la pista pochi metri più in là dell’edificio. Non accadde altro, salvo che subito dopo fu l’edificio a muoversi: ebbe una vibrazione, si sollevò su invisibili ruote e scivolò avanti fin sotto il capace ventre del velivolo. A qualche centinaio di metri di distanza un aereo dello stesso genere stava calando a contatto del suolo un altro piccolo edificio bianco. Mi volsi al più vicino del nostro gruppetto di zombie e parafrasando la canzone lo apostrofai: — Dorothy, credo proprio che questo non sia l’Arkansas.

Lui mi fissò irritato. Poi il suo sguardo cambiò. — Non ci siamo già conosciuti?

Lo fissai con più attenzione. — Il Dr. Gribbin? Ci siamo visti a Sandia, mi pare.

— Satanasso dannato! — annuì. — E lei è il congressista yankee. Che accidenti sta succedendo qui, lo sa?

Io non sapevo neanche se valeva la pena di tentare di rispondere a quella domanda. Ma mentre cercavo di metter l’una dietro l’altra due parole che avessero senso, una voce alle mie spalle mi salvò: — È un tempo parallelo — disse zelante Nicky DeSota. — Conosce un po’ la meccanica dei quanta? Bene. Sembra che Erwing Schroedinger, o forse qualcuno che giocava in squadra con lui, abbia detto che una reazione nucleare, la quale può andare in un modo o nell’altro, va in tutti e due i modi. Ad esempio, prendiamo una scatola e mettiamoci dentro un gatto…

Dovetti passarmi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere. Ecco come un sensale d’ipoteche riusciva a spiegare l’indovinello di Schroedinger a uno dei più esperti fisici moderni. Ma Nicky aveva un vantaggio su Gribbin: lo aveva visto accadere. Un altro uomo, anch’egli in maglietta e shorts, si stava avvicinando ad ascoltare il discorso di Nicky. Ma la mia attenzione era altrove. Stavo esaminando il mondo sconosciuto che mi circondava e mi chiedevo perché ero lì, e se sarei mai tornato alla mia vita e al lavoro normale del Senato… be’, non che adorassi i corridoi del Senato, ma almeno lì vigeva un tipo di anormalità a cui m’ero abituato. E soprattutto mi domandavo dove fosse in quel momento la donna che amavo. Nel nostro gruppetto c’erano alcune donne, a me del tutto sconosciute. La persona senza faccia (una tuta candida completa di guanti e stivaloni bianchi celava il resto del suo corpo) ci stava intanto facendo incamminare verso uno strano veicolo. Sopra il predellino una donna, con l’identico abbigliamento ma la faccia scoperta, era intenta a parlare col conduttore; quando ci vide avvicinare balzò giù e scappò come fossimo appestati.

Ancora non sapevo quanto fosse azzeccato quel paragone.

Nicky e Gribbin stavano sempre chiacchierando. — Faremmo meglio a salire su quell’affare — li incitai.

Gli occhi di Gribbin mi fissarono, perplessi, ma quando li spostò da Nicky a me gli si sbarrarono. — Voialtri due siete uguali! — ansimò.

Nicky sorrise. — Questo fa parte della faccenda — annuì. — E l’ha notato? Anche voi due siete uguali — annunciò, indicando un uomo che s’era voltato e ci fissava a bocca aperta. Lui si toccò la faccia come se temesse che gliel’avessero rubata.

— Satanasso dannato! — disse il secondo John Gribbin. Il che riassumeva perfettamente la situazione.

Quali che fossero i tranquillanti di cui ci avevano imbottito, sembrava ora che il loro effetto cominciasse a scemare. I miei compagni di gregge avevano preso a rivolgersi al nostro pastore, e non tutti in tono educato. Più diminuiva la percentuale di droga che avevo nel sangue più sentivo aumentare la sicurezza e l’autocontrollo. Come Nicky, avevo già avuto un’esperienza simile. Il saperlo non la rendeva più gradevole: cambiare linea temporale era una cosa che logorava i nervi.

Da quanto avrei potuto dire, Nicky e io eravamo i soli così fortunati del gruppo. Lì non c’era nessuno di quelli coi quali eravamo andati a Washington. L’assenza degli altri due Dom non mi avrebbe certo rovinato la vita, per non parlare dei due Larry Douglas e del russo. Ma quella di Nyla era molto più dura da mandar giù. Fremevo dal desiderio di chiedere a qualcuno se l’avrei rivista ancora, tutti però avevano un sacco di domande loro da fare, e sembravano assai più preoccupati e angosciati di me. — Che state combinando qui? — sbottò uno dei Gribbin. E la persona senza faccia disse:

— Sarete informati a bordo delFhover. Per favore salite, adesso: sta aspettando voi. — E si volse. Ma uno di noi lo/la afferrò per una manica, col cipiglio di chi intende: Non so che intenzioni abbia, ma appena lo scoprirò qualcuno la pagherà cara.

— Ai laboratori c’è bisogno di me! — protestò. — Abbiamo una riunione ad alto livello proprio adesso , e se non sono presente questo ci costerà metà dei fondi per il prossimo anno fiscale… — Tacque, indignato nell’udire la risata della persona senza faccia.

— Le cose di cui voi gente vi preoccupate! — esclamò lui/lei con indulgenza. — Tutti sull’hover. Presto, per favore.

Decisi che non c’era migliore alternativa che fare quanto ci veniva chiesto, e salii a bordo del veicolo. Scelsi uno dei sedili davanti, giusto alle spalle del cubicolo di vetro in cui stava il conducente, e Nicky si gettò a sedere accanto a me.

Quello che la persona senza faccia aveva chiamato un hover io l’avrei definito un «veicolo a effetto-suolo», ciò che era. Non avevo mai visto un hovercraft, ma quando sentii il rombo delle eliche sotto di noi e ci sollevammo per scivolare sul terreno impervio verso la strada seppi di che si trattava.

Uso la parola «strada» come eufemismo. Questo è ciò che era stata. Da molto, molto tempo era priva di manutenzione. Si stendeva larga e vuota davanti a noi verso il lontano profilo di una città. Non ci voleva molto a capire l’uso dell’hovercraft: niente che andasse su ruote avrebbe potuto cavarsela con le deformazioni e le spaccature di quell’asfalto. Le buche più grosse erano state riempite alla meglio, e le cunette maggiori spianate da un bulldozer, e qualcuno aveva spinto fuori strada occasionali ammassi di lamiere rugginose che una volta erano state automobili. C’erano lunghi tratti in cui le marcite avevano invaso così a fondo il percorso che dell’asfalto non restava più traccia: solo fanghiglia e cespugli da cui il nostro motore faceva schizzar via piccoli volatili. I miei occhi correvano al remoto profilo della città ogni volta che l’hover si girava da quella parte. C’era qualcosa che mi sembrava familiare…

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