D’un tratto mi accorsi che accanto a me c’era Nicky, ancora bagnato dopo essersi lavato, che si passava un pettine fra i capelli. — Non è meraviglioso, Dom? — disse.
Lo guardai con un certo risentimento… risentimento ingiustificato, perché non era colpa sua se lui non era Nyla. — Di cosa parli, Nicky? Questo è il nostro esilio. Siamo inchiodati qui per sempre.
Lui annuì con simpatia. — So che è cosi per te, Dom, perché avevi molto da perdere. Io, forse, molto poco. Ma non è soltanto un esilio. È un intero nuovo mondo. Ci hanno cacciati dal Giardino dell’Eden, ma davanti a noi c’è una nuova vita che comincia.
— Io non voglio cominciare nessuna nuova vita — dissi. — E comunque, loro non l’hanno fatto per il nostro bene.
— Questo è certo, Dom — disse. Si scostò con pudore per indossare i pantaloni del pigiama. — Ma devi ammettere che qui hanno profuso molti sforzi. Soltanto riattrezzare questa zona della città per noi… hai un’idea del lavoro che significa? Far circolare l’acqua potabile quando le tubature sono fuori uso? Mettere in funzione una centrale elettrica? Ripulire via le macerie… e non parlo solo della stoffa marcia. Dev’esserci stata molta gente qui quando tutti sono morti. Cadaveri. Scheletri, almeno, e qualcuno li ha portati via prima che venissimo qui.
— Probabilmente tutto questo sarebbe rientrato comunque nei loro programmi — obiettai.
— Ma a goderne i benefici siamo noi — puntualizzò lui.
— Intanto ci hanno esiliati qui, però. E questo per il loro interesse. Sono loro a preoccuparsi di cosa gli accadrebbe se le barriere del paratempo collassassero, non noi.
Si sedette sul letto e mi guardò pensosamente. — Avrebbero potuto fare a meno di prendersi questo disturbo — mormorò. — Voglio dire trasferirci qui, provvederci di cibo, alloggio, vestiti…
— L’hanno fatto, certo. Altrimenti come avrebbero potuto bloccare le ricerche e gli esperimenti?
— Be’ — disse, tirandosi addosso il lenzuolo, — posso immaginare come certa altra gente avrebbe risolto il problema. Si sarebbero limitati a eliminarci, lo sai. Buonanotte, Dom.
Dopo la guerra franco-indocinese alcune popolazioni s’erano rifiutate di vivere sotto il nuovo governo. Molti di costoro erano venuti in America. Una tribù di montanari s’era trasferita nel mio stesso stato: ottocento emigranti che non avevano mai visto un treno, un televisore, una cucina a gas o un aspirapolvere. E si parla di shock culturale! Ma a metterli in difficoltà non erano state cose come guidare un’auto o spingere una falciatrice. Erano state le cosette che noi davamo per scontate. Come aprire una lattina di birra. Come usare una carta di credito. Perché la luce rossa significa «stop» e quella verde significa «vai». Perché uno deve orinare soltanto nel ricettacolo approvato, anche se pensava di potersi pudicamente appartare dietro un albero. Quando avevo condotto una delegazione di consiglieri comunali a dare il benvenuto ufficiale a questi Meos, alla periferia di Carbondale, certe loro cose mi avevano molto divertito, altre mi avevano impietosito.
Se uno di loro fosse stato lì con me al Plaza, forse sarebbe riuscito a cavarsela meglio. Mi sentivo confuso e sperduto allo stesso modo, e stavolta era difficile vedere il lato divertente della situazione.
Nicky e io occupammo l’intero primo giorno a impratichirci dei più elementari sistemi di sopravvivenza nel nuovo mondo. E alla sera una cosa l’avevo imparata: era più dura di quel che sembrava. Un grosso aiuto lo avemmo dalla consolle in camera nostra, che era un insieme di televisore, telefono, computer e sveglia. Quando ci fu detto che C.P.I. significava «Codice Personale d’Identità», e che ciascuno poteva scegliere il suo a patto che non superasse le undici lettere, io feci registrare Nyla amore mio. Potemmo così usarlo a accedere alla memoria, e pazientemente l’apparecchio ci insegnò molto di quel che avevamo bisogno di sapere. Dalle liste d’informazioni che ci offriva potemmo avere le risposte a elenchi di domande, fra cui varie che non avevamo ancora pensato di porre. Ci disse, ad esempio, che l’alloggio e i pasti non erano precisamente gratuiti. Ogni servizio ci veniva messo in conto, e un bel momento avremmo dovuto pagare o ci avrebbero cacciati in strada. Come volevano essere pagati? Be’, nell’albergo non mancava il lavoro per chi avesse due mani volonterose: fabbricare letti, riattrezzare le camere sui piani in cui nessuno aveva ancora messo piede, cucinare, lavare, occuparsi dei mobili vecchi. Quando poi la quarantena fosse finita ci sarebbero state le migliaia di progetti a cui servivano lavoratori, un po’ in tutto il continente, perfino nel resto del pianeta: dalla produzione ai servizi sociali le infrastrutture dovevano essere complete. I coloni volontari da cui eravamo stati preceduti avevano fatto molto, ma costoro erano semplicemente troppo pochi per potersi occupare di tutto.
E non riuscivo ancora a vedere dove avrei potuto essere di qualche utilità. Ciò di cui avevano bisogno erano idraulici, muratori, meccanici, elettricisti, gente con esperienza pratica nei lavori di base. Non c’erano richieste d’assunzione per senatori degli Stati Uniti. E non ce n’erano neppure per studiosi della fisica dei quanta, ovvero per una notevole percentuale di noi Peety-Deepies. Quelli che sarebbero meglio riusciti a rendersi utili, supposi, sarebbero stati i Gatti — le persone balzate fuori dal loro paratempo — per lo più ventiduenni dell’esercito invasore, dei quali un centinaio abitanti lì all’albergo e varie migliaia scaglionati provvisoriamente in altri quartieri della città.
Una delle cose che il terminale nella nostra camera poté fare per noi, quando avemmo imparato come chiedere, fu di localizzare le altre «Paratemporally Displaced Persons». L’elenco era in ordine alfabetico, tuttavia, e non spiegava molto: c’erano, ad esempio, diciannove Stephen Hawking, per non parlare dei nove Dominic DeSota (fortunatamente solo quattro di noi erano ancora in città. Gli altri avevano completato la quarantena, erano stati assegnati a qualche lavoro e se n’erano andati altrove). E c’era anche una serie di liste in cui eravamo elencati in base alla linea temporale di provenienza. Circa sessanta erano le persone del mio stesso paratempo…
Ma nessuna di loro era Nyla Christophe Bowquist.
Il terzo giorno, quando scendemmo per il nostro esame del sangue mattutino, notai che Nicky era nervoso. La situazione giustificava una certa ansia, a dire il vero, perché per noi era molto importante essere sani. In quanto a questo sembravamo sani. Ciascuno era arrivato dal suo paratempo portandosi dietro batteri, virus e spore di ogni genere, ma i nostri padroni di casa non gradivano le malattie. La tubercolosi, il cancro, il vaiolo e il comune raffreddore non esistevano più nel loro mondo, e neppure l’influenza, le malattie veneree e perfino la carie dentale. Non intendevano vedersele ripiombare addosso. Le iniezioni che ci avevano fatto quando eravamo addormentati avevano appunto questo scopo, e ne controllavano i risultati prelevandoci una goccia di sangue due volte al giorno. Quel che contava, per noi, era che il sangue pulito significava maggiori privilegi. Se quel giorno fossimo risultati negativi avremmo potuto lasciare il lavoro pesante sulla mobilia per la più raffinata occupazione di servire in tavola. E inoltre alla sera ci sarebbe stato concesso di uscire in strada! Almeno fino all’altezza degli altri alberghi, per cercare qualche vecchio amico della nostra linea temporale, o addirittura al di là della strada, nel parco, per respirare la stessa aria dei nativi che ci passeggiavano.
Tuttavia questo non poteva bastare a rendere qualcuno particolarmente ansioso. Dopo che avemmo dato la nostra goccia di sangue mattutina gli chiesi cosa lo preoccupava. — Il futuro, Dom — brontolò, contrariato. — Il mio futuro. Vorrei farne qualcosa di buono, visto che qui sto ripartendo da zero, solo che… solo che sembra non ci sia molto bisogno di sensali d’ipoteche in questo Eden.
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