Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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— O di senatori — dissi. Ma non mi stava ascoltando.

— Ci sarà del lavoro di banca, suppongo — disse, precedendomi fra le cataste di mobili ammassati nel Giardino delle Palme. — Non ho visto niente del genere nella lista, ma a rigor di logica… solo che questa loro dannata aritmetica mi farebbe impazzire. — Se la stava cavando meglio di me in quella faccenda; i numeri binari mi angosciavano al punto che non avevo neppure cominciato a cimentarmi con loro, anche perché il nostro computer era così gentile da tradurli in numeri decimali per gli ignoranti.

Le mie parole dovettero però riuscire a penetrare, lentamente, nel nebuloso groviglio delle sue preoccupazioni, perché sbatté le palpebre e disse: — Oh, sì. Anche tu. Be’, non saprei, Dom. Cosa facevi prima di essere eletto senatore?

Risi. — Ero un avvocato.

— Ah! — annuì, comprensivo. — D’altronde non devono averne molti da queste parti, no? — Si volse a salutare con un cenno il nostro sovrintendente, che ci aveva raggiunti. — Prima le brutte notizie, Chuck — disse. — Cos’hai di nuovo da sbatterci sulle spalle questa mattina?

— Molto — rispose Chuck, conciso. Era un negro, e indossava ancora l’uniforme coi gradi di sottotenente, disinfettata. Aveva avuto il comando di un carro armato durante l’invasione, dunque era stato mio nemico, anche se questo sembrava non aver più alcuna importanza. L’unica differenza fra noi era che l’avevano portato lì ventiquattr’ore prima, cosicché lui era sovrintendente e noi uomini di fatica. — Ci sono settantacinque nuovi figli di mamma in arrivo oggi pomeriggio, perciò il nono piano dev’essere ripulito. Datevi da fare, voi due.

Già allora non mi sorprendeva più il fatto che a darci ordini fosse un Peety-Deepy come noi. Non vedevamo quasi nessun altro. Perfino la donna che ci prelevava il sangue dai polpastrelli era un Gatto… be’, ovviamente tutti quanti eravamo Gatti, visto che quel pianeta era stato deserto fino a cinque anni prima. Ma c’erano Gatti e Gatti, e i coloni originari stavano alla larga dagli alberghi in quarantena. Ogni tanto ne vedevamo entrare uno, con tanto di tuta protettiva e maschera facciale, venuto a ritirare i campioni di sangue o a portare istruzioni. Non si trattenevano mai molto.

Così quel che sapevo dei primi coloni era poco, e per lo più attinto dallo schermo del computer. L’insediamento originale non era stato opera di un solo paratempo. A metterlo in piedi era stato un miscuglio d’individui venuti da diciotto o venti mondi. La principale differenza fra loro e noi stava nel fatto che già da venticinque anni avevano appreso della reciproca esistenza, cominciando a scambiarsi informazioni.

Non erano state tutte rose e fiori per loro. Avevano passato diversi brutti quarti d’ora coi «rimbalzi balistici» prima di trovare il modo di minimizzarne l’effetto, più che altro limitandosi a stabilire canali di telecomunicazioni. I loro portali erano tenuti accuratamente sotto controllo, e quello che usavano per colonizzare il pianeta deserto era sottoposto a rigide misure cautelative.

Ma che vantaggi ne avevano avuto! Disponevano di venti mondi, non di uno, al lavoro per risolvere i problemi del paratempo. E avevano un numero venti volte superiore di ricercatori. Inoltre avevano sviluppato un sofisticato apparato per spiare in tutti i mondi che volevano.

Ciò che possedevano, in breve, era un’organizzazione di ricerca e sviluppo che procedeva a una velocità cento volte superiore alla nostra. Avevano risucchiato conoscenza da innumerevoli paratempi diversi: tecnologia dei computer da uno, ricerche spaziali da un altro, la fusione nucleare da un terzo, e poi ingegneria genetica, chimica, scoperte mediche… e chi più ne ha più ne metta. Avevano tutto questo.

E a me e a Nicky non mancò il tempo di riflettere sull’argomento mentre sudavamo al nono piano, perché Nicky quel giorno era silenzioso. Sembrava arrovellarsi nelle sue preoccupazioni personali, quali che fossero. Fu soltanto quando rovesciammo l’ultimo cassetto pieno di abiti marci e cianfrusaglie nell’ultima semidisintegrata valigia e portammo il tutto all’unico ascensore funzionante, che parve venirne fuori. Come nulla fosse osservò: — Non è poi tanto malvagio, qui. Eh, Dom?

— Questo non possiamo ancora dirlo — replicai, dirigendomi alle scale per scendere in sala da pranzo.

Lui mi affiancò, scuotendo il capo. — Per noi è dura, dato che non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ma i primi coloni sono venuti qui spontaneamente, e credo che abbiano avuto l’idea giusta. Un intero pianeta vergine, Dom! Santo cielo, è un pensiero eccitante. Voglio dire, non abbiamo neppure bisogno di esplorarlo, o nient’altro… sappiamo già dove si trova tutto quanto.

Su un pianerottolo mi volsi a guardarlo. — Lo sappiamo in che senso?

— È sempre il nostro stesso pianeta, capisci? Tutte le sue risorse sono state cartografate. Se voialtri avevate giacimenti petroliferi in Alaska, o se gli inglesi del mio mondo li avevano trovati in Arabia… sono ancora lì, in questo mondo! Risorse pronte per noi. E laghi puliti, fiumi d’acqua limpida, foreste mai abbattute, aria pura… via, Dom, non è eccitante per te?

— M’interessa di più scoprire cos’avremo per pranzo — borbottai.

— Ah, Dom! Non puoi dire sul serio.

— Quello che voglio dire — spiegai, paziente, — è che non mi va di star troppo a lambiccarmi sul futuro, Nicky. Non mi piace l’idea di essere intrappolato qui per sempre. Vorrei poter tornare a casa mia.

Apparve pensoso ma non fece commenti. E nessuno di noi disse altro, perché avevamo altri otto piani di scale da scendere. Solo quando fummo al pianterreno e ci mettemmo in fila fuori dal ristorante si guardò attorno e mi sussurrò: — Dom? Hai mai sentito qualcuno affermare che non abbiamo nessuna effettiva possibilità di tornare a casa?

— Be’, certo — dissi, seccato. — Di cos’altro pensi che si parli qui? Una volta che ci avranno riuniti tutti quanti chiuderanno il portale. Questo è il loro scopo basilare: tagliarci fuori, in modo che nessuno possa più provocare sconquassi coi rimbalzi balistici. Dunque siamo inchiodati qui, giusto? O credi che prima o poi potremmo costruire un portale nostro?

Scosse il capo. — No, questo non accadrà. Ci terranno puntato addosso il loro apparecchio-spia in continuazione. Non ce lo permetteranno.

— Allora non parlare come uno sciocco! — sbottai. Ero stanco, depresso e nervoso.

Anche Nicky lo era. — Chi diavolo sei per darmi dello sciocco, DeSota? — replicò. — Forse sarai stato un grand’uomo a casa tua, ma qui sei soltanto un maledetto Deepy qualsiasi!

Aveva ragione, naturalmente. Ma le abitudini sono dure a morire. E fin dall’inizio avevo preso a considerare quest’altro me stesso come un sempliciotto. Se avessi analizzato con più cura i miei sentimenti verso Nicky sarebbe venuto fuori che provavo per lui una specie di sprezzante tolleranza.

Non meritava questo. In primo luogo perché non aveva nulla che si potesse disprezzare, e poi, forse, perché ciò che in lui trovavo seccante era lo specchio in cui vedevo il lato peggiore di me stesso. Il lato con cui avevo trascinato Nyla in una relazione pericolosa e spiacevole perché non avevo il coraggio di agire rettamente… il lato che teneva aperta la porta alle altre Nyla, da cui ero stato tentato. Perché stava il fatto che lui era me, i lati buoni e quelli cattivi. Con indosso i pantaloncini e la maglietta di quel nuovo Eden, sporco della mia stessa polvere, era più simile a me di quanto non lo fosse stato mai. E lo era dentro quanto fuori.

— Nicky — dissi, dopo che ci fummo seduti a un tavolo. — Scusami.

Mi regalò un sorriso. — Niente di male, Dom.

— È solo il pensiero della gente che abbiamo contro a guastarmi l’anima — mi giustificai.

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