Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Ci fu un altro click.

Anche Nyla si abbatté al suolo, come una marionetta dai fili spezzati. La luce si rifletté su un sottile oggetto metallico, una minuscola freccia, che le sbucava dalla camicetta sulla spalla destra.

Paralizzati dallo stupore ci fissammo l’un l’altro. Ma le confuse domande che mi roteavano nella mente non tardarono ad avere una risposta, perché sentii un soffio d’aria spostata simile a quello di una porta che si apre, e d’un tratto, davanti a me, ci fu un altro sogghignante me stesso. Quell’altro me stesso che indossava la strana tuta piena di tasche. — Salve. Come va? — Ci rivolse un cenno del capo. — Qua, datemi una mano a toglierla di mezzo.

I Douglas furono più svelti di me a ubbidirgli; per quanto sbalorditi si alzarono e spostarono dal centro del pavimento la giovane donna priva di sensi. Appena in tempo. L’aria vibrò a un’altra silenziosa onda di pressione, e un alto oggetto metallico di forma cilindrica si materializzò nella stanza. — State calmi, per favore — ordinò il nuovo Dominic. Aprì un pannello del cilindro, manovrò qualcosa che stava all’interno e poi alzò gli occhi, in attesa.

Uno scintillante ovale fatto di pura tenebra apparve davanti a noi.

— Sembra che funzioni — commentò lui con una scrollata di spalle. Stava sorridendo. E mi accorsi di rispondere al sorriso: chiunque fosse, qualunque cosa si proponesse, probabilmente rappresentava un miglioramento della mia attuale situazione. Girò un’occhiata per la stanza. — È meglio non perdere tempo — disse. — Però credo che ci converrà portare questi due con noi. Fate passare per prima la ragazza.

Stavolta mi affrettai a dare una mano, sebbene non fosse un grande sforzo per noi quattro portare il corpo inerte di Nyla attraverso l’ovale. Mi causò tuttavia un brivido arcano… non il fatto di vederla sparire centimetro per centimetro, ma il sentire la presenza di mani invisibili che la sollevavano e la attiravano dall’altra parte.

Il gorilla fu un lavoro più duro. Ma eravamo sempre in quattro, senza contare l’aiuto di quelle mani al di là dell’ovale. — Adesso voialtri — ordinò il Dominic in tuta. Ubbidimmo: il Dominic sempliciotto con meraviglia, il Douglas scienziato a denti stretti, il Douglas topo di fogna reprimendo lo spavento. E da ultimo io, con la pelle d’oca e spingendo cautamente avanti un piede per esplorare il terreno.

Era notte fonda, ma potenti lampade squarciavano il buio. Stavo al centro di una piattaforma di legno, e due uomini in abiti borghesi mi presero subito per le braccia. — Spostatevi da qui, per favore — disse uno di loro, e tornò a voltarsi verso il punto dov’ero emerso.

Qualche istante dopo apparve il cilindro di metallo nero.

Due secondi più tardi fu il Dr. Dominic DeSota del Paratempo Alfa a sbucare dal nulla. — Tutti presenti all’appello — annunciò con un sorriso soddisfatto. — Ragazzi, benvenuti nel Paratempo Alfa… e tu, Doug — aggiunse, rivolto allo scienziato, — bentornato a casa.

Ma dall’espressione di Douglas-Alfa fu chiaro che non apprezzava per nulla quell’accoglienza.

Nella villetta dei sobborghi a nord della città l’anziano padre di famiglia finì la sua seconda tazza di caffè, si stiracchiò, raddrizzò la visiera del suo berretto da baseball e se lo calcò in capo. Le ferie erano l’occasione buona per rimettersi in pari con tutti i lavori di casa che attendevano due abili mani, e il prato sul retro aveva bisogno d’esser falciato. Uscì dalla porta scorrevole che dava sulla veranda e subito si fermò, meravigliato. — Marzia! — chiamò. — Vieni a vedere. Ci sono dei colibrì fra le tue petunie. Cielo, non credevo che avessimo colibrì da queste parti! — E mentre la moglie usciva si godette l’espressione di lei: dapprima incuriosita, quindi un sorriso di piacere… e poi il sorriso scomparve, gli occhi si sbarrarono di colpo. Ma l’uomo non capì il motivo dell’improvvisa angoscia sul viso della moglie finché non si voltò, e vide la strana pianta spinosa che si stava mangiando i colibrì.

27 Agosto 1983
Ore 12,30 del mattino — Maggiore DeSota, Dominic P.

Non è molto ciò che si può vedere dagli oblò di un aereo da trasporto truppe, ma quando ci inclinammo in una larga virata nel cielo della capitale potei scorgere quasi l’intero Distretto, steso sotto di noi. Nulla faceva pensare alla guerra, laggiù. Avevano acceso i riflettori attorno alla Casa Bianca e al Lincoln Memorial, e ovunque si vedevano file e file di fari d’automobili come se tutta Washington fosse in strada per celebrare la notte del T.G.I.F… no, non ovunque! Al di là del Potomac le luci delle auto erano pochissime, e quello non sembrava il traffico normale. Riconobbi i fari bassi e azzurrati dei veicoli militari. Rigido di stupore mi volsi verso il colonnello dell’esercito seduto accanto a me, e gli battei una mano su una spalla. — Se quelli laggiù sono ciò che penso — ansimai, — com’è possibile che i satelliti-spia russi non li avvistino?

Si sporse a guardare dove gli stavo indicando. — Ah, sì. — Sorrise. — Stanno facendo pratica per la parata del Labor Day. Cosa credeva?

— Il Labor Day ? — mi sbalordii.

Lui si alzò a mezzo per guardare meglio il panorama. — Ecco là il mio battaglione, proprio sul terreno della Casa Bianca. Lo vede? — chiese, e mostrò un certo disappunto quando scossi il capo. — Ci occuperemo dei controlli di sicurezza durante la parata — annunciò, e mi strizzò l’occhio.

— Gesù! Ma mancano ancora dieci giorni al Labor Day. O pensa che i russi siano così coglioni da cascarci davvero?

Scrollò le spalle. — Se non fossero coglioni, non sarebbero russi — dichiarò, poi intercettò un’occhiata del sergente-steward e s’affrettò a riallacciare la cintura di sicurezza.

Ma a parte la zona priva di traffico, là c’era il solito vecchio Distretto, pacifico, indaffarato e felice. Tutte le altre strade avevano l’aspetto che dovevano avere. Perfino da quell’altezza avreste potuto comprendere senza equivoci che quella gente non si preoccupava e non temeva alcuna invasione…

E sull’altro lato della barriera, come sapevo bene, c’era un’altra Washington, dove la nostra prima ondata d’assalto era andata a impadronirsi di tutti i ponti sul Potomac.

E cosa stesse facendo e pensando la gente di quella Washington quel venerdì sera, era una cosa che non riuscivo affatto a immaginare.

Quando fummo al Campo Bolling ed esibimmo i nostri ordini, l’impiegato addetto ai trasporti si offrì di procurare al colonnello un’auto di servizio, purché nel suo tragitto verso la Casa Bianca desse un passaggio anche a me. La cosa risultò piacevole per entrambi. Seduto al volante il colonnello fece di tutto salvo che rovesciarsi a testa in giù sul sedile, tanto si agitava per la soddisfazione e l’impazienza. Mi aveva già fatto sapere che era uscito da West Point, e sul suo petto erano bene in vista i nastrini della campagna cilena e di quella tailandese. — Questa sarà la nostra grande occasione — promise. — Ci guadagnerete la vostra foglia d’argento, maggiore, perciò sorridete! Non è stando dietro le linee che si fa carriera, quando c’è un’invasione in atto!

— Già — dissi, lasciando scorrere gli occhi sui campi di periferia. Quel che aveva detto era abbastanza vero. Quel che invece non sapeva era che il Generale Facciaditopo non me l’avrebbe fatta passare liscia. Non aveva potuto sbattermi davanti a una corte marziale, due ore dopo avermi dato una medaglia. Ma se l’era legata al dito. Un giorno, prima o poi, sarei stato sorpreso a bere una birra al Circolo Ufficiali, o a sputare su un marciapiede nei recinti del Pentagono, e allora il generale sarebbe stato lì pronto ad affondarmi i denti nella gola.

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