Era cibo messicano, in piatti di cartone e appena fuori freddo… be’, niente era davvero freddo in quella zona del New Mexico, comunque il cibo era a temperatura ambiente. E la temperatura ambiente era, come promesso, tenuta appena sotto il massimo sopportabile da un ronzante scatolone applicato alla finestra di quel vasto soggiorno. Con noi c’erano i nostri due alter-ego e Moe, e il calore dei nostri cinque corpi sembrava sufficiente a surclassare le possibilità del condizionatore.
Sedetti accanto all’altro DeSota e ci guardammo in faccia. — E allora, Dom? — lo salutai. Lui sembrò sorpreso.
— Di solito mi chiamano Nicky — mi corresse. — Dico, l’hai vista , là fuori? E pensare che mi hanno accalappiato soltanto perché ero in topless! — Aprii la bocca per chiedergli cosa voleva dire, ma stava già interrogandomi: — Sei davvero un senatore degli Stati Uniti?
— Certo, dal 1978. Eletto nell’Illinois.
— Non ho mai parlato al mio senatore, prima d’ora — constatò, e sorrise. — Buffo scoprire che quel senatore sono io. Come devo chiamarti?
— Viste le circostanze, Dom andrà benissimo. E tu? Nicky? Divertente… cioè, non volevo dir questo. Anche quand’ero un bambino mia madre non mi chiamava mai Nicky.
— E neanche mia madre. Ma quando entrai al lavoro il mio capo mi consigliò in merito. «Dominic suona troppo come dominatore » disse, e questo metterebbe a disagio i clienti. Io sono nel ramo ipoteche. — Esitò, mandò giù una forchettata di fagioli e chiese: — Dom, com’è che sei diventato senatore?
E naturalmente sottintendeva: mentre io non sono nessuno. Ma come avreste risposto a una domanda del genere? Non potevo certo dirgli «Perché io sono un vincente e tu un fessacchiotto». Questo sarebbe stato imperdonabile e oltretutto falso, visto che eravamo la stessa persona. Ma cos’era accaduto in quell’universo che aveva trasformato la mia dolce suonatrice di violino in una gelida burocrate, e me stesso in un pacioccone ingenuo dai grandi occhi spalancati?
Non ebbi la possibilità di indagare meglio. Venne dentro Moe, oberato dal peso di una grossa scatola di cartone, e dietro di lui entrò Nyla Christophe. Adesso indossava una gonna e una camicetta a maniche lunghe, che mi parvero severe e fuori moda oltreché da poco prezzo, anche se da come la stoffa le aderiva avrei giurato che sotto non aveva nulla.
— Piaciuto il pranzo, egregi signori? — chiese in tono faceto. — Ora dovrete cantare, se volete guadagnarvi la cena. Sono andata all’ufficio di Albuquerque per parlare con Washington su una linea sicura, e le cose stanno procedendo proprio come pensavo. Stasera ci saranno ordini per tutti noi.
Fece un cenno a Moe, che poggiò la scatola sul pavimento e cominciò a tirarne fuori roba: un poderoso e antidiluviano registratore, che collegò alla presa del lampadario, due larghe ruote di nastro magnetico, un microfono più grosso del mio pugno e un rotolo di cavo.
L’altro Larry Douglas, non quello che aveva attraversato il portale con me, disse preoccupato: — Nyla, di che ordini stiamo parlando? — Lei sogghignò e puntò un indice verso il cielo. — Washington ? — gemette l’uomo con voce rotta per l’improvvisa angoscia. — Ascolta, Nyla, ti giuro che non so un accidente di niente di questa…
— Adesso saprai, tesorino — disse dolcemente lei. — Moe? Pronto a registrare?
— Tutto pronto, capo — fece rapporto lui, tirando il nastro da una ruota all’altra. Girò un interruttore, e attraverso la griglia frontale dell’apparecchiatura potei vedere delle grosse valvole termoioniche — valvole termoioniche! — illuminarsi debolmente.
— Ecco quel che faremo adesso — spiegò la donna che indossava il corpo della mia amante. — Prenderemo ancora nota di tutte le vostre versioni. Non date informazioni extra. — E lanciò un’occhiata d’avvertimento a quel Douglas. — Limitatevi a rispondere alle mie domande. Al direttore non interessa sapere cosa facevate di bello a Chicago, o se vi è piaciuto il trattamento che vi siete sorbito. Solo l’essenziale, perché voglio concludere prima che si parta per l’aereoporto!
Considerando tutte le domande a cui avevo dovuto rispondere, considerando la complessità delle circostanze su cui ciascuno avrebbe riferito, non vedevo come quella serie d’interviste potesse finire prima di notte. Ma mi sbagliavo. Nyla Christophe aveva un’idea ben precisa di ciò che intendeva mettere su nastro, e chiese solo pochi elementi base. Nicky DeSota fu il primo. Rispose fornendo nome, indirizzo e qualcosa chiamato numero del registro civile. Quindi ci furono soltanto due domande:
— È mai stato dentro i Laboratori Daley?
— No.
— Ha mai visto prima d’oggi l’uomo, qui presente, che le somiglia e dichiara di essere il senatore Dominic DeSota?
— No.
Con un cenno del capo Nyla gli comunicò di levarsi di mezzo, e il suo posto fu preso dal Larry Douglas locale. L’interrogatorio non fu più elaborato, e terminò con le stesse due domande, con la sola differenza che l’uomo lì presente e che gli somigliava era il «Dr. Lawrence Douglas». Lui diede le identiche risposte, quindi fui io a sedermi davanti al microfono.
Stavolta occorse più tempo, perché lei ordinò: — Cominci da quando fu avvisato che un uomo corrispondente a lei era stato catturato in una base militare segreta del New Mexico, e riassuma gli avvenimenti. — Dopodiché si limitò ad ascoltare, intervenendo solo con domande tipo: «E poi che accadde?» sino al momento in cui nominai il maggiore DeSota degli invasori. Qui chiese: — Costui era lo stesso che le fu portato davanti ammanettato e vide scomparire? No? Era forse quest’altro qui presente? No? Dunque dichiara che vi sono almeno quattro di voi? Sì? Bene, prosegua.
Riferii tutto quanto, compreso il modo in cui avevo messo KO l’altra Nyla, senza però parlare del bacio; ma soprattutto evitai di dire che era un doppione di Nyla e la nominai solo come «sergente Sambok». La cosa non mi era stata chiesta. — E poi cademmo sulla sabbia, e ci accorgemmo che intorno a noi c’era solo il deserto. Neanche un’anima in vista, e il caldo era terribile. Dovevamo nasconderci quanto prima, o almeno pensammo di doverlo fare. Ci dirigemmo a sud est, regolandoci a occhio col sole. Camminammo per ore, finché la sete divenne insopportabile. Poi Douglas disse d’aver sentito raccontare che certi cactus contenevano acqua; cercò di sradicarne uno dalla sabbia, e sotto c’era un serpente. — Esitai, chiedendomi quanti dettagli la donna volesse. Avevo sentito i sonagli, e avevo visto Douglas balzare indietro col crotalo che gli penzolava attaccato a una manica. Non era molto grosso, e la blusa di lui aveva un certo spessore, cosicché non era passato troppo veleno. E l’espressione attonita di Douglas, mentre fissava muto e stupefatto il rettile, m’era parsa addirittura ridicola. — Poco dopo giungemmo a una linea ferroviaria. Restammo lì finché il macchinista di un treno ci raccolse.
— Bene — disse Nyla Senzapollici, e annuì verso il suo gorilla. Lui spense il registratore e cominciò laboriosamente a cambiare il nastro. Se Nyla non aveva i pollici, quell’individuo sembrava averne cinque per ogni mano; ma lei fu paziente. Adesso dedicava la sua attenzione al mio involontario compagno di viaggio, che appariva a disagio. Potei capirne il motivo, poiché nel modo in cui la donna lo contemplava c’era qualcosa di strano. Lo avrei detto — ma come poteva essere? — seducente, ma allo stesso tempo sfumato d’incredulità, quasi di paura. Gli elargì un sorriso caldo e dolce. — Tu sei il prossimo, tesoro — disse.
Se i primi tre di noi avevano riempito un rotolo di nastro, questo Dr. Lawrence Douglas doveva avere tanto da raccontare da esaurire tutte e sei le bobine che Moe aveva tirato fuori. Nyla sparava domande secche e concise e di tanto in tanto si aiutava con certe sue note per esser certa di non aver trascurato niente. Douglas comunque cominciò subito con una dichiarazione sorprendente:
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