A meno che, naturalmente, non mi fossi procurato un altro po’ di medaglie in quell’operazione. Io sono un uomo prudente. Ma in quel momento mi sembrava che la cosa più prudente che avrei potuto fare fosse di meritarmi l’aureola dell’eroe, se mi si fosse presentata l’occasione…
Attraversammo il ponte proprio sotto il Cimitero di Arlington, con la sua eterna luce che brillava in cima alla collina. Il traffico di automezzi civili era intenso, mentre riflettevo che proprio li, su quello stesso ponte, le nostre truppe stavano tenendo a bada il nemico, al di là di un’impalpabile barriera temporale. E davanti a noi…
— Ma che diavolo c’è lassù? — chiesi, indicando quelli che sembravano riflettori da un milione di watt puntati verso il cielo.
— Qualcosa che tapperà gli occhi ai satelliti dei russi — spiegò il colonnello. — Quei proiettori sono sopra la Casa Bianca e sul Centro di Comando Sheraton, e se i russi scatteranno foto sopra quell’inferno di luce saranno i benvenuti. Comunque — aggiunse con un sogghigno, — la notizia ufficiale è che anche loro stanno facendo pratica per la luminaria del Labor Day.
Mi lasciò al vialetto d’ingresso dello Sheraton Hotel, trasformato per l’occasione in un quartier generale. Quando mostrai i miei ordini scoprii che l’ingresso principale era riservato ai gradi da colonnello in su: la gente come me doveva girare sul retro, entrando dalla parte del parcheggio. Era enorme, e pieno zeppo. Ma non di auto di turisti o delle limousine dei VIP: c’era almeno una divisione di carri armati e di mezzi cingolati, allineati con ordine… e fra essi molti veicoli per nulla in ordine, evidentemente riportati indietro dopo il primo attacco. Alcuni di essi erano stati sottoposti a un fuoco d’inferno. Uno o due mi sorpresero addirittura, perché a vederli non si capiva come avessero fatto a riportarli indietro: torrette rotanti d’acciaio massiccio strappate via di netto, un cannone che sembrava fuso come cera, quattro o cinque autoblinde sforacchiate da gragnuole di colpi o squarciate da esplosioni. Tutti quanti erano coperti da reti mimetiche, per ingannare gli occhi orbitanti dei russi, e l’area era sorvegliata da un bel po’ di guardie armate.
E soltanto al di là della siepe fiorita c’erano le strade indaffarate del Distretto, dove milioni di persone ronzavano attorno senza un pensiero al mondo.
Qualunque cosa stesse accadendo nei salotti, nei bar e nei ristoranti dell’Hotel Sheraton, i graduati come me non erano destinati a saperlo. La parte dell’albergo riservata a noi erano le sale di riunione, e acquartierata lì c’era già una folla di sottufficiali al lavoro. Presentai i miei ordini a un furiere e ne ebbi in cambio una tessera d’identità da appuntarmi sulla giacca, quindi fui dirottato all’appartamento William McKinley per altre disposizioni. Nel tragitto oltrepassai una sala da ballo piena di gente. Non era una riunione di nozze o un bar mitzvah: si trattava di militari, molti dei quali in mutande, che si cambiavano le uniformi (le loro, con cui erano stati catturati) in altre uniformi (le nostre) con le quali sarebbero stati discretamente trasferiti in un campo sulle colline del Maryland.
Prigionieri.
Mi fermai sulla soglia a curiosare. Questi non erano i militari dell’Aeronautica da noi catturati a Sandia. Erano soldati che avevano combattuto, e le bende che molti portavano stavano a testimoniarlo. Le differenze fra le nostre uniformi e le loro erano numerose, ma a una prima occhiata non si notavano troppo. Il colore di base era lo stesso verde oliva. I loro gradi erano più piccoli dei nostri, e bordati d’argento invece che in nero. I nastrini sul petto avevano certo significati diversi, e da lontano non potevo comunque vederli bene. Inoltre il capitano degli MP mi stava già indirizzando occhiate ostili, così mi allontanai: avevo l’ordine di presentarmi immediatamente a rapporto da chi occupava le camere «William McKinley», e c’era il caso che la guardia alla porta avesse telefonato per annunciare il mio arrivo.
Se anche l’aveva fatto, nessuno gli aveva badato. La sergente di fureria al tavolo presso la porta non aveva mai sentito il mio nome. Scartabellò fra i suoi fogli, parlò al telefono con una certa «Tootsie», ributtò i fogli sottosopra, infine li lasciò perdere e dichiarò: — Si prenda una sedia, maggiore. La sistemeremo appena possibile.
Non ebbi difficoltà a tradurre: «Appena possibile» significava «Quando qualcuno scoprirà chi diavolo sia e cosa si suppone che sia venuto a fare». Mi rassegnai a trascorrere la successiva considerevole frazione della mia vita a strusciare la schiena sulla spalliera dorata di una delle panche allineate in corridoio.
Non mi annoiai poi tanto. Potei assistere all’ingresso e all’uscita di quasi un centinaio di persone, tutte dal passo molto veloce e che non mi prestarono la minima attenzione. Ma una ventina di minuti più tardi, quando i piedi mi erano stati pestati appena due volte, la sergente si alzò e mi fece un cenno.
— Da questa parte, maggiore — disse. — Il sottotenente Kauffmann l’aspetta.
Mai qualcuno mi aveva aspettato con l’impazienza del sottotenente Kauffmann. La prima cosa che gli uscì di bocca fu:
— Dove diavolo si era cacciato, maggiore? Credevano che fosse già alla Casa Bianca!
— Alla Casa… — esclamai, ma lui m’interruppe:
— Proprio così. E in abiti civili, inoltre. Qui si dice — e sbatté una mano su un foglio che aveva davanti — che lei assomigli moltissimo a un senatore dell’altra parte…
— Un accidente che gli assomiglio. Io sono lui.
Si strinse nelle spalle. — Comunque deve assumere la sua identità. Dopo che la prima ondata avrà occupato la Casa Bianca…
Fu il mio turno d’interromperlo: — Stiamo attaccando la Casa Bianca?
— Ma lei dov’era? — si stupì sinceramente. — Non hanno risposto al nostro messaggio, così siamo passati alle maniere forti. Deve mettersi in borghese, le stavo dicendo, e due guardie in uniforme la scorteranno. A darle istruzioni sarà il direttore del portale, ma se ho capito bene vogliono che trovi la loro Presidente, la catturi e la riporti da questa parte.
— Merdasanta! — dissi. E poi: — Un momento. E se il vero senatore DeSota fosse di là?
— Non c’è — affermò lui con sicurezza. — Non l’ha fatto prigioniero lei stesso?
— Ma è passato… voglio dire, credevo che fosse tornato nella sua linea temporale.
Scrollò le spalle. Traduzione: Non è di competenza del mio dipartimento. — Perciò — continuò, — prenda la sua valigia B-quattro e si metta in borghese, poi la porteremo subito a…
— Non ho con me alcun bagaglio — dissi, — e non ho nessun abito civile.
Sbarrò gli occhi. — Cosa ? Per Cristo, maggiore! E io come accidenti dovrei fare per trovarle degli abiti civili? Pensava che glieli avrei comprati in sartoria? Perché, maledizione… — La presenza della sergente, sulla porta, gli ricordò la tattica prevista dal manuale per attaccare un bunker del nemico. — Sergente! — ordinò. — Vada a cercare degli abiti civili per quest’uomo!
Fu cosi che venti minuti più tardi la sergente e io venimmo sbarcati da una limousine Cadillac lunga quanto un pullman dinnanzi a un negozio, la cui insegna al neon diceva: AFFITTO abiti da cerimonia VENDO. Il neon era spento, ma il proprietario aveva riaperto per noi. E dopo altri venti minuti l’uomo tirò giù la saracinesca e ripartimmo per la Casa Bianca. — Ottimo lavoro, sergente — le dissi, semisdraiato sul sedile di pelle nera largo quanto un letto a due piazze. Ammirai i riflessi delle scarpe di vero coccodrillo in affitto, mi lisciai la fascia-cintura di seta in affitto, aggiustai il nodo della cravatta in affitto. Stavo già entrando nella parte di un genuino senatore degli Stati Uniti, reduce da un elegante cocktail party e convocato a tarda ora dal Presidente per un’urgenza alla Casa Bianca. — Credo che l’abito da sera sia stato un’idea vincente — commentai. — È impossibile dire quale sia la moda corrente nella loro linea temporale, ma gli abiti da cerimonia non tramontano mai, no?
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