— Speriamo — si limitò a dire lei. Da lì a poco fummo all’ingresso dei VIP, e la sergente esibì i nostri documenti a un sospettoso MP spalleggiato da altri due diffidenti MP. Erano tutti armati, ma avrebbero potuto anche farne a meno perché il vialetto d’accesso era sbarrato da un’autoblinda con una mitragliera binata puntata su di noi.
Mi occorse un po’ per rendermi conto che sulla Casa Bianca c’era stato un cambiamento. I riflettori! Non c’erano più… evidentemente il satellite russo era passato oltre, e li avevano tolti. Notai anche qualcos’altro.
Perfino all’inizio del weekend il traffico del dopocena a Washington rallentava molto. Ma non da quelle parti. Intorno a noi c’era un lento e continuo movimento di veicoli, e quelli che avevano smesso di macinare i prati erano parcheggiati sulle aiuole. Il verde della Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di cinque anni di giardinaggio prima di dimenticare i cingoli dei tank e degli autocarri che l’avevano arato via… «esercitandosi per la parata», naturalmente.
Era chiaro che non intendevano lasciar passare i comuni civili.
Io non ero però un comune civile. Dopo un po’ ci fu fatto cenno di proseguire. L’autoblinda mise in moto e per darci via libera si spostò sull’erba — altri cento dollari di prato buttati nel gabinetto — e l’autista ci portò davanti a un piccolo porticato che non avevo mai visto. — Buona fortuna — disse la sergente. Esitò, poi si sporse a darmi un bacio su una guancia per dimostrare che diceva sul serio.
Quella doveva essere l’ultima volta per un certo periodo di tempo che qualcuno avrebbe mostrato un po’ d’affetto per me.
L’unica volta che avevo visitato la Casa Bianca era stato durante il secondo mandato di Stevenson, e l’esperienza aveva avuto ben altro sapore. Adesso non c’erano valletti in uniforme a guidarmi in giro, né corde di velluto per tenere i barbari fuori dalle camere sacre. Non c’erano neppure camere sacre. Quello che vedevo erano uomini armati in metà dei locali, e armi o macchinari in quasi tutti gli altri. Un caporale mi scortò a passo di marcia per un corridoio di servizio e su per una larga rampa di scale, quindi sbucai in una sala tappezzata in verde e resa austera dai ritratti dei Presidenti Madison e Taft. Un distributore di caffè caldo piazzato su un tavolo appena oltre la porta, con i bicchieri di carta, le conferiva però un’atmosfera accogliente. Alcune delle sedie allineate alle pareti erano occupate: quattro o cinque civili, fra cui una donna che dovevo aver già visto altrove. Ma conoscevo di vista anche un paio degli uomini, specialmente il negro, un ex campione dei pesi massimi. Dalla parte opposta sostavano otto o nove soldati, con le armi in pugno e l’aria d’esser disposti a usarle.
Furono due di loro, robusti e coi gradi di caporale, a farmisi incontro. Quello che m’aveva condotto lì disse: — Ecco il maggiore DeSota, signori — salutò e usci in fretta.
A conferma della rapidità con cui si susseguivano gli avvenimenti non riflettei che di norma un caporale non saluta mai un altro caporale. Così dissi al più grosso dei due: — La prima cosa di cui ho bisogno è una tazza di caffè, caporale.
Lui inarcò un sopracciglio spesso come uno dei suoi gradi, poi sogghignò. — Diamo a quest’uomo un po’ di quel caffè, capitano Bagget — disse. E mentre l’altro «caporale» andava a riempirmi un bicchiere di carta si presentò: — Sono il colonnello Frankenhurst, maggiore. Sa quale sarà il suo compito?
— Uh… spiacente, signore — mi scusai. — La missione? Sì, in linea generale. Voglio dire che, a quanto ho capito, dovrò trovare la Presidente Reagan. E a questo punto suppongo che sarete voi due a intervenire, per catturarla e riportarla qui.
— Una rognosa improvvisazione — disse spassionatamente. — Bene, non importa. In queste ultime quarantott’ore il capitano e io abbiamo ripassato la parte. Se qualcuno ci ferma lascerete parlare me. Tutto ciò che lei deve fare è di passare per un senatore. Pensa di cavarsela? — E sogghignò, a chiarire che aveva la situazione in pugno. — Non si preoccupi troppo, maggiore. Tanto per cominciare può darsi che non se ne faccia nulla. Hanno dei guai con l’impianto-spia; quella gente dall’altra parte si muove attorno così in fretta che i tecnici non riescono a seguirli. Secondo le ultime voci, pare che non apriranno il portale prima delle tre del mattino, in ogni caso.
— Sarebbe un’idiozia — osservò il capitano-caporale, tornando col caffè. — Dovranno rimandare almeno alle otto, altrimenti la nostra comparsa desterà dei sospetti.
Il colonnello scrollò le spalle. — Ovviamente — aggiunse il capitano con un sospiro, e mi guardò da capo a piedi, — un abito da sera non apparirà del tutto normale alle otto di mattina.
— Non si scandalizzeranno per così poco — disse il colonnello. — Bene, DeSota, le andrebbe di conoscere gli altri doppioni? Questa è Nancy Davis… naturalmente l’avrà vista alla TV. — Naturalmente l’avevo vista: era la protagonista del serial Mamma sei fantastica , e mi chiesi come fossero riusciti a distoglierla dalle sue molte benemerite (e redditizie!) attività che andavano dalla raccolta di fondi per la Protezione Animali alle campagne per il Diritto alla Vita. — Lei è la Presidentessa — ridacchiò il colonnello Frankenhurst. — John, qui, è un comandante della polizia addetto alla sicurezza interna della Casa Bianca… nella nostra linea temporale fa il pilota civile, nell’Ohio. E il campione del ring è un senatore come lei. — Attese che stringessi la mano a tutti e sorrise compiaciuto. — Riunirvi non è stato facile, ma formate un’ottima squadra. Qualcuno non siamo riusciti ad averlo, purtroppo. Abbiamo anche cercato il Generale Porteco, il consigliere militare della Presidentessa, ma il nostro amico era appena uscito dal trattamento D.T. e quelli del penitenziario non sono riusciti a rimetterlo in piedi.
L’ultimo dei civili si fece avanti. — Professor Greenberg, Scienze Politiche — si presentò. — Non sono il doppione di nessuno. Ho l’incarico di farmi un’idea delle strutture sociali dell’altra linea temporale, e di consigliarvi su come restringere il più possibile le differenze fra voi e i vostri alter-ego. Di conseguenza devo cominciare da lei, maggiore… è già stato nell’altra linea temporale, no? Che idea se n’è fatta?
Così nella mezz’ora successiva fui io a tenere banco. Non avevo granché da dire, in realtà… cos’avevo conosciuto dell’altro universo, oltre quelle poche miglia quadrate di deserto nel New Mexico? Ma era più di quanto sapessero tutti i presenti, e ciascuno aveva delle domande. Il professor Greenberg volle chiedermi quanto costasse una lattina di Cola Cola nei loro distributori automatici. Il «senatore» Clay volle sapere quale percentuale di negri ci fosse nelle loro forze armate. La «Presidentessa» Nancy Davis domandò quali fossero i «serial» di maggior successo alla loro TV, e se per caso sapevo se da loro l’aborto fosse stato legalizzato. Il colonnello-caporale Frankenhurst volle essere informato sulle loro tecniche di combattimento a mani nude, e chiese se durante l’occupazione di Sandia li avessi visti reagire con mosse di judo oppure di karaté.
Feci del mio meglio. Ma mentre cercavo di ricordare, per Nancy Davis, chi fosse il presentatore del loro show Star Parade , ci furono dei passi in corridoio, la porta si aprì e venne dentro il Presidente Brown seguito dal suo entourage al completo. Non aveva l’aria molto soddisfatta.
Non m’ero aspettato che si facesse vedere, poiché avevo sentito dire che s’era incavolato a morte constatando i danni che i militari avevano fatto alla sua dimora legale, senza contare la sua agenda d’appuntamenti buttata all’aria da chi aveva depennato i nomi di quelli non autorizzati a vedere ciò che succedeva… che erano la maggioranza.
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