O avrei potuto intraprendere la carriera militare come l’altra mia incarnazione, il maggiore, che si sentiva realizzato in atti di conquista e di disonestà intellettuale… O avrei potuto morire giovane per una ragione o per l’altra, come sembrava esser successo al Dominic DeSota di Rho.
E tutti quei me erano me.
Questo era frustrante. Ne sentivo minacciata la stabilità della mia vita in modi a cui non mi era mai accaduto di riflettere. Chiunque, certo, sapeva dirsi che le cose avrebbero potuto andare diversamente per lui… ma era un’altra cosa toccare con mano il fatto che, da qualche altra parte, questo era successo.
Riportai lo sguardo sui due che viaggiavano con me. Anche da una dozzina di file di distanza potevo intuire che Nicky stava vivendo il momento magico della sua vita nel grande pulso-jet, che con lo scarso traffico del sabato prima del Labor Day era mezzo vuoto. Anche il senatore appariva eccitato. Invidiavo la gioia che riuscivano a ricevere da ciò che li circondava, malgrado dovessero sentirsi sperduti in una linea temporale aliena dalla loro quanto il pianeta Marte…
Poi gli occhi mi caddero sul tipo dall’aria manageriale del 32-C, che aveva aperto la ventiquattrore sul posto vuoto accanto al suo. Ne aveva estratto dei documenti, ma stava lanciando occhiate irritanti e allusive a me e al visifono.
Gli volsi le spalle e feci l’altra chiamata.
Non composi la sigla del suo ufficio all’Istituto Sklodowska-Curie. Chiamai Harry Rosenthal sulla linea privata, attesi, e quando lo ebbi in linea sullo schermo vidi che la parete dietro di lui non apparteneva alla sua casa di Chicago: l’automatico lo aveva rintracciato dove si trovava in quel momento. — Ah, sei a Washington — dissi.
— Hai maledettamente ragione — brontolò. — E sto aspettando te. Qui arrivano chiamate ogni cinque minuti, dall’Esercito, dal segretario della Ricerca Scientifica e dalla CIA. Vorrei che tu fossi già qui, Dom!
Non gli chiesi il perché.
La conversazione con Dorothy non era stata precisamente allegra. Non lo fu neppure questa. Chiesi subito delle due cose che mi preoccupavano di più: l’invasione di Epsilon da parte di Gamma ed i rimbalzi balistici. Non venni confortato né sull’una né sull’altra. Anzi, il contrario. — Gli avvenimenti su cui stiamo scandagliando — rispose con voce piatta, — sono in via di evoluzione. In quanto ai rimbalzi… hai visto i notiziari televisivi?
— Dove diavolo lo trovavo il tempo di guardare la TV, Harry?
— Dovresti fare in modo di trovarlo — disse cupamente. — Ci sono intrusioni attraverso la barriera su ogni angolo del continente. Non riusciamo a spostare la strumentazione abbastanza in fretta per tener dietro a tutte. Ma quando grandina sui tavoli da picnic di una scuola domenicale mentre tutto attorno splende il sereno, non c’è bisogno di strumenti per capire cosa sta succedendo. — Poi mi fornì un altro motivo di preoccupazione: — Il segretario vuol sapere perché hai portato qui quella gente di Tau.
— Ma Douglas ha vuotato il sacco con loro! — protestai. — È semplice politica preventiva! L’hai dichiarato anche tu: limitare le ricerche pericolose, tenerne alla larga quelli che non le hanno ancora raggiunte.
Mi fissò duramente. — Eri stato mandato a riportare indietro Douglas, e a salvare due emigrati involontari. Nessuno ti ha chiesto di tornare con quattro nuovi emigrati. Cosa ne farai di loro, adesso?
Poiché non avevo una risposta da dargli fui lieto di riappendere, e lasciai libero il visifono per il manager impaziente del 32-C.
Mi diressi poi al locale delle hostess, a metà del velivolo, e mentre oltrepassavo gli altri due Dominic mi accorsi che entrambi erano ansiosi di parlarmi. Io non ne avevo voglia. Rivolsi loro un cenno amichevole e tirai diritto. Avrebbero dovuto aspettare. Volevo riflettere un po’ su quel che Harry Rosenthal mi aveva detto.
Le hostess erano occupatissime a rifarsi il trucco, salvo una che conscia dei suoi doveri si stava chiedendo che diavolo fosse l’orribile cosa nera rimasta a cuocere nel forno a microonde. Ma quando dissi — Terza classe, prego — nessuna fece obiezioni. Sapevano cosa stavano trasportando in terza classe. Lo steward smise di dipingersi le unghie e mi aprì il piccolo ascensore, scortandomi nel vasto compartimento sottostante.
Le aviolinee usavano il compartimento di terza classe passeggeri per scopi di diverso genere. Alcune lo attrezzavano a bar-ristorante, altre lo riempivano fittamente di poltroncine da classe turistica… ma non c’era il modo di abbandonarlo con sicurezza in caso d’incidenti, cosicché non era molto popolare fra i viaggiatori. Le linee transcontinentali utilizzavano quello spazio dei pulsojet suddividendolo in cuccette, per chi voleva dormire nei voli a lunga distanza, o altre volte per casi speciali su percorsi brevi.
Noi eravamo uno dei loro casi speciali.
Anzi, eravamo molto più speciali di quelli che definivano eufemisticamente «casi speciali», ovverosia il trasporto di prigionieri. A dire il vero essi non erano prigionieri lì. C’erano i due dell’FBI del Paratempo-Tau e il loro Larry Douglas, che nella loro linea temporale non avevano commesso alcun crimine e tantomeno nella nostra. E poi c’era l’altro Larry Douglas, il nostro, il cui stato legale era abbastanza oscuro e il cui processo, se mai ne avesse avuto uno, avrebbe originato un precedente per chissà quanti altri casi consimili. Avevo già sentito giudici e avvocati domandarsi ciò che il termine «giurisdizione» poteva significare circa il luogo dove aveva infranto la legge. Non erano prigionieri. Il sorvegliante che sedeva da un lato, con una rivista fra le mani, non era un agente di polizia. Solo una precauzione.
Entrai dalla parte frontale del compartimento. C’erano sedili per una trentina di persone, e lo spazio per i nostri ospiti non mancava. La donna dell’FBI e il suo antropoide sedevano in fondo alla fila di sinistra e stavano confabulando fra loro. O meglio, la donna parlottava e il grosso individuo la ascoltava in rispettoso silenzio. Nessuno dei due si girò a guardarmi. Il loro Larry Douglas stava nella fila accanto, al di là del passaggio centrale, e sembrava ansioso d’essere invitato a partecipare alla conversazione. I due lo ignoravano completamente. E il nostro Larry Douglas sedeva a testa bassa in prima fila, immagine stessa dell’abbattimento. Non alzò gli occhi, ma sapevo che mi aveva visto uscire dall’ascensore.
Lo studiai per un momento. Che razza di vespaio era riuscito a sollevare quest’uomo! Quando avevamo finalmente scoperto in quale paratempo era andato (e per allora la gente per cui lavorava al balzo-quantum era già passata dalla teoria alla pratica) avevamo dovuto decidere cosa fare di lui. Io avevo votato per mandarlo a recuperare. La decisione era stata presa all’unanimità. Ma il mio primo impulso sarebbe stato quello di spedirgli dietro una tigre affamata, come segno della nostra stima. E anche se non avevo osato dirlo quella mi sembrava ancora un’idea molto attraente.
Così attraente che dovette leggermela nella testa, perché alzò lo sguardo e gemette: — Io non ho potuto farci niente, Dom! Quelli stavano cominciando a torturarmi!
La risata da contralto che giunse dal fondo del compartimento mi sorprese. L’istinto di cospiratrice della donna dell’FBI l’aveva indotta ad ascoltare, e sembrava che avesse già udito canzoni di quel genere.
— Ma è vero! — insisté disperatamente lui. — E comunque la colpa di tutto è tua, Dom.
Questo mi stupì. Aprii la bocca per chiedergli cosa intendeva dire, e lui mi precedette: — Avresti potuto fermarli! Avresti potuto seguirmi. Perché non hai fatto scandagliare quella linea temporale?
La sfacciataggine di quell’individuo! La sua fuga era avvenuta nei primi tempi del progetto, molto tempo prima che avessimo sviluppato la tecnica per montare il portale e l’apparato spia da usarsi contemporaneamente. — Non l’abbiamo fatto perché non potevamo — sbottai. Lui mi elargì un’occhiata acre.
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