— Ah, eccola qua! — disse brusco, riuscendo a trovare una specie di smorfia con cui rispondere al blando sorriso di Nancy Davis. — Ho bisogno di parlare con lei. Adesso, se non le spiace!
Per nulla intimidita lei annuì affabilmente. — Certo, signor Presidente. Cosa posso fare per lei?
— Tanto per cominciare potrebbe dirmi che accidente di persona è — sbottò lui. — Non si è neppure degnata di rispondere al mio messaggio pubblico! Cosa bisogna fare per ottenere la sua preziosa attenzione?
— Suppongo che lei si riferisca all’altra me stessa, signor Presidente — disse lei, sorridendo del suo speciale sorriso televisivo, un trionfo, ne ero certo, della cosmesi e della chirurgia estetica. — Non so se posso darle questa risposta, comunque. Dopotutto io non sono realmente la Presidentessa… qui.
— Entri nella sua parte, santo cielo! — ruggì lui. — Ha un’idea di cosa c’è in gioco? Non sto parlando del pandemonio di quell’altro mondo. Sto parlando di questo qui. I russi stanno facendo domande molto seccanti sui «preparativi per la parata» e sullo «scavo archeologico» nel New Mexico, e ci sono altre nazioni coinvolte. È solo questione di tempo prima che tutto il resto del mondo venga a ficcarci il naso. E allora come la metteremo coi comunisti? — Vedendola sbattere le palpebre ebbe un gesto irritato. — No, non è questo che voglio domandare a lei… che accidente potrebbe saperne di questo? Io mi sto rivolgendo a lei. All’altra lei. Sarebbe d’aiuto, a suo avviso, se cancellassi tutta l’operazione e cercassi di contattare lei, l’altra lei, su una linea telefonica? Da Presidente a Presidente? Una chiacchierata faccia a faccia?
— Ecco, presumo che dipenda da quel che direbbe, signor Presidente — rispose lei, dopo aver riflettuto un attimo.
— Direi la verità! — esclamò lui. — Sarebbe uno scambio, un patto da prendere in considerazione, no?
— Be’ — disse lentamente lei. — Penso, signor Presidente, che dovrei ricordare il mio giuramento ufficiale. Suppongo che sia uguale a quello fatto da lei. Difendere gli Stati Uniti contro tutti i nemici, interni o esterni… perfino se sono interni ed esterni contemporaneamente, per così dire. Quello che non vorrei mai, credo, è di permettere che la mia patria sia invasa da chiunque senza combattere con tutte le armi che abbiamo… anche se l’invasore è la mia stessa patria.
Lui la guardò, scoraggiato. Poi girò gli occhi sui presenti, particolarmente sugli uomini in uniforme. Per la prima volta in vita mia, credo, fui contento d’essere soltanto un ufficiale da campo, senza alcun rapporto con gli strateghi ad alto livello. Non mi sarebbe piaciuto essere uno dei Capi di Stato Maggiore, in un momento come quello.
Il Presidente andò a sedersi su una sedia, corrugò le sopracciglia e fissò lo sguardo in un punto vuoto della parete opposta. Uno dei collaboratori si piegò a mormorargli qualcosa di urgente, ma lui lo allontanò con un gesto seccato. — Dunque, alla resa dei conti, ci troviamo una guerra per le mani — disse ad alta voce.
Nessuno aprì bocca per replicare.
Nella stanza cadde un silenzio di piombo. Il collaboratore che aveva fretta gettò un’occhiata al suo orologio, poi a Jerry Brown. Senza guardarlo il Presidente disse: — Lo so. Probabilmente era un’osservazione accademica, ormai. Qualcuno vada alla finestra a vedere se hanno cominciato.
Il suo aiutante era un giovane, non più che trentacinquenne, ma quando andò a scostare le lunghe tende verdi le sue spalle curve erano quelle di un centenario.
Avrebbe potuto anche fare a meno di aprire i vetri, perché proprio in quel momento udimmo levarsi i sordi brontolii dei mezzi cingolati che mettevano in moto i diesel.
Poi tutti quanti andammo alle finestre. Ce n’erano tre, e istintivamente lasciammo quella di centro al solo Presidente. Andò al davanzale a passi lenti, e senza dir parola spinse uno sguardo pensoso nella calda notte esterna, mentre noi ci affollavamo alle altre due finestre.
Davanti a noi c’era il Prato Sud, quello solitamente riservato ai servizi fotografici durante le visite di capi di stato e alle scolaresche di Washington venute a stringere la mano al Presidente. Al centro era stata costruita una grande struttura coperta da reti mimetiche, per celare qualcosa a chi guardava dalla strada o dall’alta atmosfera, ma dalle finestre era possibile vederne l’interno: c’era il largo rettangolo nero di un portale, simile a uno schermo cinematografico su cui venisse proiettata solo una profonda notte cosmica. Anche se l’avevo fatto più volte, era snervante guardare quella cosa e immaginarsi nell’atto di sprofondarvi dentro.
E fu ancora più snervante quando vidi il primo squadrone di sei carri armati rombare avanti sull’erba sconvolta e scomparire nel portale, insieme al loro rumore. Subito dopo fu la volta di cingolati da trasporto truppe, una dozzina, seguiti da scaglioni di Ranger, altre autoblinde, un’intera compagnia dell’esercito in tute mimetiche… jeep armate di mitragliere, altri cingolati…
Il Presidente fece un sospiro e si volse. Attraversò la stanza, tallonato dal suo staff, e sparì verso i corridoi già piuttosto animati dove aveva preso inizio la parte interna dell’operazione. Io e gli altri che eravamo rimasti nel locale ci fissammo l’un l’altro.
Sapevamo che adesso, molto probabilmente, sarebbe toccata a noi.
Da quel momento in poi l’operazione procedette velocemente, eccitante nei suoi particolari preordinati che scattavano l’uno dietro l’altro. I pezzi grossi si affrettavano qua e là, distribuendo raffiche di ordini, ed io cominciai a sentirmi formicolare la pelle. Ero euforico, vibrante di compulsioni che andavano molto al di là della voglia di fare qualcosa di eroico solo per placare il Generale Facciaditopo Magruder. Appena Frankenhurst diede il segnale uscimmo dalla Sala Verde e passammo al piano di sopra, percorrendo il lungo corridoio anteriore dov’erano scaglionati dozzine di marines col mitra in pugno… e quasi all’improvviso fummo là. Nell’Ufficio Ovale stesso, la sala del trono del Presidente Brown.
In quel momento era la cosa più diversa da una sala del trono che possiate immaginare. Se non avessi saputo dov’ero, l’avrei detta l’incrocio fra una stanza di sgombero e il laboratorio di uno scienziato pazzo: la scrivania presidenziale era stata spostata contro il muro, duemila dollari di preziose poltrone e cinquemila dollari di divani erano accatastati fin quasi al soffitto. E nel centro del locale sorgeva una complicata struttura rettangolare al centro della quale non c’era niente, come una cornice vuota. Era alta quattro metri circa, con la base a livello del pavimento, collegata da un lato col generatore di campo del portale e dall’altro con pannelli di strumenti.
Il campo era spento.
Ciò che compresi dagli ordini e dalle imprecazioni che fioccavano tutto attorno fu che l’apparizione del sipario di tenebra nel rettangolo era ostacolata da qualche inconveniente. Al di là del portale un colonnello, frustrato e irritatissimo, stava sparando ordini ai tecnici che si davano da fare a togliere pannelli in cerca dei fusibili responsabili dell’interruzione di corrente. Tre quarti del plotono d’assalto di cui era previsto il passaggio oltre quel portale stavano in fila davanti alla grande cornice, mentre il loro capitano sbraitava proteste cercando di far voltare il colonnello verso di sé. Se fossi stato un colonnello non avrei permesso a un capitano di usare quel tono, ma lui era troppo occupato a rodersi l’anima sul guasto per ascoltarlo.
La scena era tutt’altro che rassicurante.
Verso di noi si fece largo la direttrice del portale. Aveva i gradi di maggiore, ma non stava abbaiando a nessuno anche se la sua era la faccia di chi ha raggiunto il culmine del disgusto. Si rivolse ai miei due caporali: — Voi dovrete aspettare. Abbiamo mandato di là solo otto uomini prima che cortocircuitasse, e adesso potreste incontrare resistenza. Tenetevi fuori dai piedi.
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