Il colonnello aveva stretto i denti con ferocia, ma non lo lasciai parlare. — Ah, Dom! — dissi, tristemente. — Giochi di questo genere m’ero augurato di non doverli giocare mai. Ma, a parte la cosa in se stessa, perché non vuoi parlarmene?
— Perché è troppo tardi, Dom — disse.
— Troppo tardi, santo cielo, per cosa ?
— La cosa di cui intendevo avvertirti. Non lo sai?
— Io non so niente!
— Ma dovresti. Sta accadendo. E la prossima volta che ci incontreremo, tu ed io… — ebbe la smorfia di un sorriso, quasi addolorato. — Non saremo tu ed io a incontrarci. — Tacque, parve sul punto di parlare ancora, esitò, gettò uno sguardo all’orologio…
E in quell’istante scomparve.
Quando dico «scomparve» uso il termine alla lettera, ma non vorrei dare un’immagine sbagliata. L’altro Dominic DeSota non «scomparve» dietro qualcosa o fuori dalla porta. Non divenne sempre più trasparente come un attore in uno show di fantascienza alla TV. Scomparve veramente. Un momento prima era lì. Un momento dopo non c’era più.
E le manette, chiuse ormai soltanto intorno all’aria, caddero sul pavimento dove lui aveva poggiato i piedi.
Cose del genere non fanno parte della vita di un normale essere umano. Non disponevo di alcuna reazione psichica già bell’e pronta, per fronteggiare una flagrante violazione delle leggi naturali, e lo stesso poteva dirsi per il colonnello Martineau. Lui mi fissò. Io lo fissai.
Nessuno commentò quella sparizione, a meno che «Merda-santa!» non si possa chiamare un commento. Mi parve che quel sussurro fosse uscito dai denti del colonnello.
— Hai un’idea di quel che stava dicendo, colonnello? — chiesi, tanto per esser sicuro. — No? Già, penso di no. Bene. Adesso cosa facciamo?
— All’inferno se lo so, senatore! — ringhiò. Ma per quanto a un ufficiale in comando sia permesso dire una cosa simile, non gli è permesso «non sapere» cosa fare. Abbaiò un ordine al sergente, istruendolo sul fatto che l’altro me stesso andava immediatamente ricercato. Il sergente esibì un’espressione confusa, visto che né noi né lui vedevamo minimamente l’utilità della cosa, e il colonnello sospirò rassegnato. — Si dia da fare, sergente — disse, e lo seguì con gli occhi mentre usciva. Poi si girò verso di me. — Be’, un elemento lo abbiamo. Ha detto che, qualunque cosa sia, sta già accadendo. Perciò non ci vorrà molto per scoprire di che razza di faccenda si tratta.
— Mi auguro che non sia nulla di spiacevole — borbottai.
Ma quando la cosa accadde, dieci minuti più tardi, fu chiaro che non era piacevole in nessun modo possibile. Eravamo usciti dall’ufficio, incamminandoci nel corridoio con alle calcagna il piccolo distaccamento di truppe del colonnello a passo di marcia, tutti con le divise estive e tutti chiedendosi dove poteva esser finito il prigioniero. E fuori dall’edificio vedemmo venire verso di noi un altro gruppo di militari, all’incirca una dozzina. Anche loro marciavano al passo, ma non portavano uniformi estive: quelle che avevano addosso erano tute da combattimento, e appese alla spalla avevano stranissime carabine a canna corta, d’aspetto micidiale.
— Stop! — latrò un graduato quando furono a una decina di metri da noi. Il drappello si schierò orizzontalmente. Gli uomini misero un ginocchio a terra e imbracciarono le carabine, puntandole dritte su di noi.
Un ufficiale lasciò il distaccamento e si fece avanti. — Merdasanta! — ansimò ancora il colonnello Martineau, e non ebbi bisogno di chiedergli il perché.
L’uomo indossava la stessa tenuta da combattimento degli altri, ma si poteva ipotizzare che fosse un ufficiale perché impugnava una pistola invece della carabina. E c’era qualcos’altro che avrei potuto dire di lui se ne avessi avuto il fiato. Comunque lo confermò quando aprì bocca. — Sono il Maggiore Dominic DeSota, dell’Esercito degli Stati Uniti — disse, con una voce che conoscevo fin troppo bene. — E voi siete miei prigionieri di guerra.
Quelle parole furono scandite con chiarezza, ma nella sua voce c’era una nota un po’ stranita. Sapevo perché. L’intimazione era indirizzata al colonnello, mentre gli occhi dell’uomo erano inchiodati su di me, e anche quell’espressione m’era familiare. Era l’espressione che avevo anch’io. Dissi: — Salve, me stesso. — Lo vidi accigliarsi. — Credevo che tu fossi scomparso. Di che si trattava, allora? Era tutto uno scherzo?
Lui fece un cenno col capo a uno dei soldati, che corse avanti e mi agguantò per le braccia unendomele a viva forza dietro la schiena. Sentii una morsa fredda attorno ai polsi e compresi d’esser stato ammanettato. — Non capisco cosa tu voglia dire con «scomparso» — esclamò l’altro me stesso. — Ma questo non è uno scherzo. Consideratevi tutti sotto custodia protettiva.
— A che scopo? — sbottò il colonnello, porgendo malvolentieri i polsi alle manette.
— Soltanto finché non avremo chiarito le cose col vostro governo — ci rassicurò l’altro me stesso. — Vogliamo spiegare loro cosa devono fare, e voi rimarrete nostri prigionieri fino al momento in cui si dichiareranno d’accordo. Vi conviene star calmi. Se la cosa non vi piace, ovviamente, avete sempre un’altra scelta: fare resistenza. Dopodiché non sarete più prigionieri, sarete soltanto dei cadaveri.
Il conduttore di macchine agricole seduto nella cabina a vetri del suo grosso raccoglitore meccanico diminuì la velocità, per consentire ai supporti rotanti di far presa sui filari di fagioli fra cui stava procedendo. Le sue riflessioni non andavano oltre la partita dei Sox alla TV, che s’era perso. Stava pensando che avrebbe volentieri fatto pausa per bere una birra quando udì, giusto alle sue spalle, il rumore di un veicolo in avvicinamento rapido ed il sibilo allarmante di freni idraulici. Si volse di scatto e con la coda dell’occhio vide un poderoso autotreno con rimorchio che gli stava arrivando addosso. Freneticamente girò il volante del raccoglitore, devastando e schiacciando una dozzina di filari. Ma quando tornò a girarsi dietro di lui non c’era niente.
23 Agosto 1983
Ore 9,10 della sera — Mrs. Nyla Christophe Bowquist
Mi seccava molto essere proprio nella città di Dom senza che lui fosse lì, del resto avevo fin troppo con cui tenermi occupata. Preparare un concerto è una cosa che non lascia tempo libero a nessuno. C’erano le interviste con la stampa. C’erano i cocktail prima della serata, affollati dai finanziatori della National Simphony Orchestra. E soprattutto c’erano le prove. Dieci minuti di prove con l’orchestra mi costavano invariabilmente un’ora per mandare a mente i tempi, i tagli, i toni e le modifiche su cui ci eravamo accordati. Si potrebbe pensare che per me sia più facile provare con Mstislav Rostropovich che con altri, visto che Slavi ha cominciato anche lui come violinista. Neppure per sogno. È pignolo fino all’esasperazione. Capace di far fremere di nervosismo tutti quanti mettendosi a spiegare la dinamica delle onde sonore a un suonatore di controfagotto, o illustrando l’esatto numero di microsecondi in cui una nota dev’essere sincopata. Non voglio dire che non mi piaccia lavorare con lui. Ha un delizioso senso dell’umorismo, per dirne una. Come uomo lo trovo adorabile.
Non perde occasione di scherzare con me, in modo gentile. Ad esempio, giorni addietro, dopo che gli avevo rimandato firmato il contratto per quel concerto, il suo segretario mi richiamò e disse: — Slavi m’incarica d’informarla che ha una scelta, Nyla: Sibelius o Mendelssohn. Quale dei due? — Ero stata costretta a ridere.
Era quel genere di battute che vi sentite dire per un po’, dopo un certo fatto, tanto per scherzare. E aveva una storia. La prima volta che avevo suonato con la National Simphony, alla conferenza stampa una giornalista mi aveva colto con la guardia abbassata. Suppongo che fossi stanca. Comunque avevo detto una cosa di cui solitamente i violinisti non parlano, ma che è nota a chiunque abbia suonato il violino nei teatri da Paganini in poi. Ci sono pezzi di musica che strappano l’applauso perché sembrano richiedere più virtuosismo di quanto non sia in realtà, come quelli di Mendelssohn. E altri che, apparentemente facili, sono dei veri test di abilità, come quelli di Sibelius. Così avevo detto alla donna che quando volevo compiacere un pubblico non sofisticato suonavo Mendelssohn, mentre se mi esibivo per dei colleghi o degli intenditori affrontavo Sibelius.
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