Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Ma dal di fuori non c’è modo di vedere quale delle due cose è accaduta. Dal di fuori potete solo dire a voi stessi che ci sono cinquanta probabilità su cento che il gatto sia vivo.

Però un gatto non può essere vivo al cinquanta per cento.

Così, disse il fisico trionfante, girando su di noi uno sguardo di compiacimento per aver reso tutto tanto chiaro, la realtà è che entrambe le cose sono vere. Il gatto è vivo. Il gatto è morto. Ma ognuna di queste realtà è vera in un differente universo. Al momento della verità l’universo si scinde in due come un’ameba: e da lì in poi, per sempre, i due universi saranno entrambi reali e paralleli. Un universo dove il gatto è vivo, e un universo dove il gatto è morto. Inoltre viene a crearsi un altro universo ogni volta che si verifica una reazione subatomica dello stesso genere… perché essa avviene e non avviene contemporaneamente, e gli universi si scindono l’uno dall’altro senza fine.

A questo punto il senatore Kennedy s’era schiarito la gola. — Dottor Fass — aveva detto. — Mmh, tutto questo è molto interessante. Come esercizio di speculazione, voglio dire. Ma nell’universo reale noi apriamo la scatola e così vediamo se il gatto è vivo o morto.

— No, no, senatore! — aveva esclamato il fisico. — No, questo è completamente falso. Ambedue le cose sono accadute!

Ci eravamo guardati l’un l’altro. — In senso matematico, intendete dire? — aveva azzardato Kennedy.

— In ogni senso! — era stato il grido di Fass. — Questi universi paralleli, che si creano milioni alla volta ogni microsecondo, sono «reali» esattamente come quello in cui io sono qui a farvi la mia relazione. Oppure, se vogliamo dirla nel modo opposto, l’universo abitato da noi è immaginario né più né meno nella misura in cui lo sono tutti gli altri.

Di nuovo ci eravamo guardati senza aprir bocca, tutti e diciotto, senatori e congressisti provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti, domandandoci se quest’uomo credeva in quel che diceva, qualunque cosa stesse dicendo. Un congressista del New Jersey m’aveva sussurrato all’orecchio: — Tu vedi qualche applicazione militare in questo, Dom?

— Chiediglielo tu stesso — era stato il mio suggerimento. Ma alla domanda del congressista il fisico aveva sollevato le braccia stupefatto.

— Vi prego di scusarmi, signori — aveva esclamato. — E anche signore, voglio dire — s’era corretto, annuendo verso la senatrice Byrne. — Credevo che questo fosse già chiaro. Bene. Supponiamo che vogliate distruggere con una bomba H una città, o un’installazione militare, o qualunque altra cosa in qualunque punto del globo. Portate la bomba in uno degli universi paralleli, volate fino alla latitudine e longitudine di… che so, Tokio, o del posto che intendete colpire, dopodiché tornate nel nostro universo e innescate il detonatore. Boom ! Il nemico è andato. Se avete diecimila bersagli… quante che siano le basi missilistiche sul territorio nemico, costruite diecimila bombe e le piazzate in loco contemporaneamente. Non può esserci difesa contro un’azione simile. Il nemico non può vedervi arrivare, per il semplice motivo che nel loro universo voi non state arrivando… finché non apparite lì.

E s’era appoggiato alla spalliera della sedia, definitivamente compiaciuto di se stesso.

Anche noi c’eravamo appoggiati alle spalliere delle sedie. Ci eravamo guardati l’un l’altro. Ma non credo che qualcuno di noi fosse veramente compiaciuto.

Quella proposta non sarebbe stata sufficiente a convincere il comitato a spendere soldi, se non fosse stato per un fatto. Come ho già detto, se quel programma non avesse funzionato — cosa che tutti noi pensavamo, e che molti di noi speravano — la perdita di fondi sarebbe stata irrilevante. Perché quella faccenda, come lo Spionaggio-Psi, era assai poco costosa.

Ebbene, finalmente condussero quell’uomo in sala riunioni, e devo confessare che fu una delle più spiacevoli esperienze della mia vita. Non dolorosa. Non intollerabile. Semplicemente poco piacevole, sotto tutti gli aspetti.

Come molti uomini anch’io detesto fare acquisti. Soprattutto acquistare abiti. E uno dei principali motivi è perché non mi piacciono quegli specchi a tre ante che hanno nei negozi di confezioni. Sono oggetti odiosi, il cui scopo è di cogliervi impreparati. Voi siete lì che vi provate un completo; il commesso si complimenta con sfacciate menzogne proclamando che sembra tagliato apposta per la vostra elegante persona; vi sentite invitare nell’angolo dove questi tre alti specchi sono attaccati insieme come un trittico medievale. Guardate dentro di essi con ingenua obbedienza e la prima cosa che vedete è il vostro profilo: inevitabilmente vi occorre qualche secondo per capire che costui siete voi. In quanto a me, faccio volentieri a meno di studiare il mio profilo, anzi considero l’idea quasi oscena. Non è questo il modo in cui Dio intendeva che guardassi me stesso, e la prova di ciò è che quando mi guardo di profilo mi vedo decisamente antiestetico e sgradevole. Stento molto a riconoscere quell’individuo dal sorriso melenso, con quel buffo naso e il mento sporgente. Come abbia fatto a capitare dentro uno specchio che dovrebbe riflettere me è sempre un grande mistero… Ciò malgrado non perdo il contatto con la realtà: so che quel personaggio sono io. Solo che avrei preferito non saperlo.

Questa è l’esperienza che ebbi anche nella Casa dei Gatti, a Sandia.

Quando portarono dentro quell’uomo lui non mi guardò. Non guardava nessuno. Gli era stato impedito di asciugarsi la faccia, cosa che da sé non avrebbe potuto fare comunque perché aveva le mani legate dietro la schiena. Forse il motivo per cui camminava a testa china era che temeva d’inciampare. Ma non lo credetti. Fui certo che il motivo era un altro: sapeva che se avesse alzato il capo si sarebbe trovato a guardare i suoi stessi occhi. O i miei. I nostri.

Detestai la situazione all’istante.

Era mille volte peggio che guardarsi in uno specchio a tre ante. E il disagio fu tale che mi colse impreparato.

Costui aveva la mia faccia, i capelli del mio identico colore, perfino la stessa sfoltitura sulla sommità del cranio. Ogni particolare. O meglio quasi ogni particolare, perché c’erano lievi differenze: doveva avere due o tre chili meno di me, e indossava un abito che non somigliava per nulla ai miei. Era una sorta di tuta a un pezzo, di una stoffa lucida color verde scuro, con parecchie tasche sul torace e altre, suddivise in sezioni, sui lati dei pantaloni. Aveva tasche perfino sulle maniche e lungo la gamba destra. Forse avevano contenuto documenti e oggetti dell’altro me stesso, ma in quel momento erano vuote. Senza dubbio gli uomini del colonnello lo avevano rivoltato come un guanto.

Feci lo sforzo di dire: — Dominic, guardami.

Silenzio. L’altro Dominic non rispose, non alzò gli occhi e non fece nulla, anche se una lievissima inclinazione della testa m’informò che aveva sentito benissimo. Nessun altro nel locale aveva aperto bocca. Il colonnello stava zitto e attento, e quando il colonnello Martineau stava zitto e attento i suoi uomini facevano lo stesso.

Ci provai di nuovo: — Dominic! Per amor di Dio, dimmi cosa sta succedendo!

L’altro io tenne lo sguardo sul pavimento ancora per un poco. Poi lo rialzò, ma non verso di me. Sorvolano la testa di Martineau, fissò sull’orologio appeso alla parete, come se facesse un calcolo. Finalmente si volse a me e parlò: — Dominic — disse. — Per amor di Dio, non posso dirtelo.

Non era una risposta soddisfacente. Il colonnello Martineau fece per dire qualcosa ma lo azzittii con un gesto. — Per favore — chiesi.

L’altro me stesso ebbe una smorfia rammaricata. — Be’, Dom, vecchio mio, a esser franco il motivo per cui sono qui è che volevo dirti una cosa. A te — precisò. — E per «te» non intendo la seconda persona singolare o altre persone estranee a me stesso. Intendo te-Dominic-DeSota, che come sai bene, sei me.

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