— Hanno richiamato, senatore. Quest’individuo… gli hanno controllato le impronte, la foto d’identità, tutto quanto, anche l’impronta vocale. Adesso lo tengono in custodia. Sembra che costui affermi di essere voi. E, senatore… è quel che dicono anche loro.
Una giovane vedova che si agitava un po’ a disagio nel suo lussuoso ma ormai semivuoto letto a due piazze ebbe l’impressione di udire, fra la veglia e il sonno, rumori e grida. Quando aprì gli occhi quei suoni non cessarono. Stupita andò alla finestra. Non vide altro che i praticelli fioriti del suo villaggio residenziale. Aprì allora la finestra (cosa non facile: la gente che abita in quelle ville da 150.000 dollari bada bene a tener fuori tutto, a volte perfino l’aria) e le urla risuonarono subito più forti, mentre alle narici le giungeva un ripugnante lezzo di spazzatura accumulata. Che ci fosse in corso un’aggressione? Che stessero ammazzando qualcuno? Ma né quelle urla da angiporto, né quel puzzo disgustoso, erano cose concepibili per lei, lì nella tranquilla eleganza di Cabrini Gardens.
22 Agosto 1983
Ore 2,50 del mattino — Senatore Dominic DeSota
Non c’erano molti voli da Washington ad Albuquerque la domenica notte, e nessuno di loro era diretto. Per un po’ mi chiesi se non sarei stato costretto a chiamare l’Air Force per avere un aiuto dai militari. Alla fine Jock riuscì a procurarmi un posto su un volo della TWA, in partenza dal National alle nove in punto. Era un viaggio di quattro ore, attraverso due fusi orari, e per fortuna riuscii a dormire un poco fra Kansas City e Albuquerque. Lì terminavano per me i trasporti civili, e cominciavano quelli forzatamente militari. Gli uomini del Dipartimento della Difesa che mi accolsero all’aeroporto avevano l’aria di chi non ha bisogno di dormire e disprezza farlo. Mi caricarono su un’auto dello Stato Maggiore e filammo via in autostrada, svoltando poi nel deserto fino all’ingresso della Base di Sandia. A guidare l’auto era una sottotenente del WAC, con la fascia della MP. Le guardie al cancello si limitarono a identificarla a vista. Non domandarono nessun documento, ma mentre proseguivamo vidi che a noi si accodava un furgone pieno di MP. Ci tenne dietro sulla strada che aggirava la Base, oltre la centrale a energia solare e la Zona Nucleare, fino all’Edificio A-440.
Ero già stato nell’Edifico A-440. Si trattava di quello che chiamavamo la Casa dei Gatti. E il Re dei Gatti era un colonnello dell’esercito di nome Martineau. Fra una riunione e l’altra eravamo diventati abbastanza amici, perciò ero stupito del fatto che non mi avesse chiamato lui personalmente. Si sarebbe trattato di una telefonata informale e del tutto lecita fra amici.
Mentre scendevo dall’auto tre MP lasciarono il furgone e mi scortarono all’interno. Cominciai a intuire che non c’era niente di amichevole e d’informale in quella visita. Gli MP non marciavano al passo e non accennarono a circondarmi, o tantomeno a toccarmi. Ma non mi tolsero un istante gli occhi di dosso nel percorso fra la porta e l’ala dove c’era l’ufficio del colonnello Jacob Martineau. Entrai. — Colonnello — dissi, con un cenno del capo.
Lui annuì di rimando: — Senatore — fu tutto il suo saluto, quindi: — Posso vedere i suoi documenti, prego?
No, non c’era niente d’informale in quella faccenda. Martineau esaminò la mia patente di guida dell’Illinois, il mio passaporto senatoriale, e la scheda in plastica anti-contraffazione con le mie impronte digitali, quella fornita anche di codice magnetico, che il Dipartimento della Difesa rilascia ai politicanti rompiscatole che pur non vantando un grado militare hanno il diritto, talvolta, di visitare le installazioni militari segrete.
Esaminò ogni parola e ogni macchiolina su ciascuno di quei documenti. Mise poi la tessera del Dipartimento dentro la fessura di un terminale da tavolo, uguale a quelli in cui nei ristoranti di lusso ficcano la vostra carta dell’American Express dopo che avete ordinato ostriche per duecento dollari, e anche quand’ebbe visto accendersi la luce verde continuò a non mostrarsi soddisfatto.
— Senatore — chiese, — vorrei che mi dicesse dove ci siamo visti l’ultima volta. È stato al Pentagono o qui?
Lo fissai negli occhi. — Come sai perfettamente, Jacob, in nessuno dei due posti. È stato a Boca Raton, alla conferenza sulle tecnologie sperimentali. Entrambi eravamo lì come osservatori.
Lui sogghignò. Rilassandosi un tantino mi restituì il portafogli. — Suppongo che tu sia proprio tu, Dom — disse. — L’altro uomo non ricordava di Boca Raton.
Cominciai a domandargli chi intendeva per «altro uomo», ma il colonnello m’interruppe con un gesto. — Aspetta un momento, per favore. Sergente! Porti il prigioniero in sala riunioni, prego. Il senatore ed io vogliamo parlargli subito.
Attese che il sergente avesse lasciato l’ufficio, poi si grattò un sopracciglio. — Qui abbiamo un guaio, Dominic.
— A causa di questo tipo che afferma di essere me?
— Non ha detto esattamente questo. — Il colonnello ebbe una somorfia. — Il guaio è che non ha detto quasi niente, anzi. Dapprima credevo che lui fosse te. Adesso…
— Adesso non lo credi più?
Il colonnello esitò. — Adesso — mormorò, — detesto dire una cosa di questo genere, ma non riesco a trovare nessun altro termine adatto a spiegarlo. Senatore, credo che quest’altro uomo sia un «Gatto».
Un contadino di nome Wayne Sochsteiffer si svegliò nel sentire la radio trasmettere le notizie del mattino della WGN, sbadigliò, si stiracchiò, e andando alla finestra si chiese se avrebbe dovuto annaffiare il campo a nord, coltivato a fagioli. Ma quando fu dinnanzi alla finestra dalla bocca gli scaturì un rantolo di sorpresa. Il campo a nord non c’era più. Ciò che vide al suo posto era una distesa di cemento, recintata, abbastanza larga da poterci posteggiare un centinaio di macchine, e un edificio basso e lungo su cui campeggiava l’insegna: «NISSAN MOTORS — Concessionaria e Ricambi».
A quel Wayne Sochsteiffer venne quasi un colpo per la sorpresa.
Quel Wayne Sochsteiffer non provò tuttavia una sorpresa paragonabile a quella di un altro contadino, anch’egli di nome Wayne Sochsteiffer, che si svegliò nello stesso modo, guardò fuori dalla stessa finestra e vide proprio quel che si aspettava di vedere: il suo campo a nord, verde di pianticelle di fagioli nella luce del mattino. La sorpresa l’ebbe quando tornò a voltarsi verso il letto matrimoniale e vide, addormentata fra le lenzuola, una donna che non assomigliava neppure minimamente a sua moglie.
22 Agosto 1983
Ore 4,20 del mattino — Senatore Dominic DeSota
Il personale della Casa dei Gatti sembrava non aver notato che eravamo nel mezzo della notte. Per il prigioniero le cose stavano diversamente: dormiva della grossa. Il sergente telefonò dal reparto detenzione per informarci che l’uomo chiedeva il permesso di andare al gabinetto e farsi una doccia prima d’essere interrogato. — Perché no? — dissi, quando il colonnello Martineau mi gettò un’occhiata. — Non m’importa molto di veder vilipesa la mia autorevole persona. Specialmente da me stesso.
Lui aprì la bocca e rise in silenzio. Era quel genere di risatina che dedichereste a un controsenso, non a una battuta. Diede il permesso e ordinò del caffè, sia per noi che per il prigioniero, quindi ci mettemmo a sedere e nell’attesa ci fissammo l’un l’altro.
Sembrava che non ci fosse molto da dire.
Avremmo potuto parlare della persona che sembrava me, ma entrambi avevamo sviluppato l’abitudine di non parlare dei Gatti. In effetti non usavamo mai neppure quel termine, se non durante ristrettissime riunioni confidenziali. Per quanto ne potevo sapere la parola stessa non era mai apparsa né in documenti né in altre registrazioni. Era il segreto meglio custodito che vi fosse in tutte le diverse installazioni per le ricerche segrete americane. E si trattava di un segreto tale che ancora stentavo a credere che fosse vero.
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