Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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Sono tempi duri per i contadini dell’Iowa orientale. Gente abituata a sopportare avversità di ogni genere, dall’aridità alla grandine, dalle inondazioni alle farraggini legislative, si è vista ora piombare addosso un nuovo disastro. Dal Muscatine a Quad City, per un tratto di oltre venti miglia, il cielo si è improvvisamente oscurato a causa di una densa nuvola color grigio-verde. E quando la nuvola s’è abbassata, duecentocinquantamila acri coltivati a grano, soia e ortaggi sono stati ricoperti da un tappeto di locuste. Locuste! Nessuno nello Iowa aveva mai visto uno sciame di locuste. E quando si sono risollevate in volo, al suolo restavano soltanto zolle nude.

21 Agosto 1983
Ore 4,50 del pomeriggio — Nicky DeSota

Quando fate il sensale d’ipoteche per voi non ci sono domeniche. La domenica è il giorno in cui i vostri clienti sono liberi, così se volete trovare l’uomo che vi procura il pane a casa con la moglie, la domenica è la vostra migliore amica. Era una bella giornata, brandelli di nuvole candide sorvolavano gli alberi della Riserva Forestale Mekhtab ibn Bawzi, e la piscina parve strizzarmi l’occhio quando la oltrepassai. Niente piscina per me quel giorno. Niente chiesa. Niente capatina allo stadio per vedere qualche inning della Lega Giovanile. Niente se non conteggi di pagamenti rateali, di valori di borsa, trasferimenti di titoli e percentuali. Non ebbi neppure la possibilità di dare un’occhiata al giornale fin verso le cinque, e anche allora soltanto sul tram che mi portava in città. Salii su quello delle 4,38 in partenza da Elk Grove, dopo aver acquistato a volo un giornale mentre le vetture si stavano già muovendo e trascorsi dieci minuti a occuparmi delle notizie davvero importanti… quelle della pagina sportiva, insomma, per vedere cos’avessero fatto i Cubs e i Sox, e quale fosse la posizione in classifica dei Brooklyn Dodgers. I Cubs erano ancora decimi, a un mese dalla fine del campionato, e l’allenatore dichiarava che la situazione non era senza speranza. Ma non era il caso che mi mettessi a far calcoli sulla classifica, così dopo un po’ tornai alle prime pagine del giornale.

Naturalmente non avevo dimenticato quella stupida corsa in auto giù a Dixon. Fino a quel momento, suppongo, non mi ero preoccupato sul serio di ciò che avrebbe potuto accadermi. Un certo disagio l’avevo sentito, sì. Chi non si sente a disagio quando l’FBI gli mette gli occhi addosso? Ma preoccupato no, visto che sapevo di aver le mani pulite e disponevo di testimoni pronti a provarlo.

Così, in un certo senso, era stato proprio quando Ron aveva promesso d’aiutarmi con le sue proposte gonfie d’aria che avevo cominciato a impensierirmi davvero. M’ero atteso che il telefono suonasse o che, non so, qualche radiocronista della NBC Blue Network venisse a chiedermi che ne pensavo della dimostrazione fatta a Chicago quel giorno.

Be’, non c’era stata nessuna telefonata. E non c’era stata nessuna dimostrazione, o quantomeno nessuna che avesse meritato d’apparire nelle prime due pagine del Tribune. L’articolo di fondo diceva che il Presidente Daley sarebbe venuto a Chicago per la posa della prima pietra della biblioteca intitolata a lui. Queste erano le notizie che leggevate sul vostro Tribune. (A fondo pagina un articoletto parlava di nuovi scontri fra la Lituania e la Russia. Alla Lega delle Nazioni i russi erano stati accusati di aggressione.) Si parlava anche dei terribili boati e di altri rumori stridenti uditi nel cielo sovrastante il campo d’aviazione del Frutteto Vecchio (l’Areonautica Militare negava ogni responsabilità e asseriva di non conoscerne le cause). Da una notizia all’altra eravamo quasi arrivati in stazione quando, a pagina sette, un titolo mi balzò agli occhi:

ARRESTATO EX DIVO DEL CINEMA

diffamazione contro il Governo e l’FBI

Così il vecchio Ron era finito dietro le sbarre.

E non soltanto questo. Quando lessi l’articolo venni a sapere che era stato accusato d’aver detto che l’FBI era «fascista», e che i cittadini avevano il dovere di «resistere». Esattamente le frasi che aveva pronunciato mentre sedevo alla sua tavola.

C’erano solo quattro persone che potevano aver riferito ad altri quelle parole. Non credevo Ron tanto sciocco da aver parlato lui stesso, e anche sua moglie era da escludersi. Ne ero certo.

Il mio misterioso amico Larry Douglas aveva fatto la spia.

Mi aveva condotto là deliberatamente per… no, la sua manovra era cominciata ancor prima: mi aveva tolto da una brutta situazione per farmi sentire in debito con lui. Poi mi aveva portato a Dixon, con il preciso scopo di trascinare il vecchio Ron Reagan nei guai. Perché? Non riuscivo a immaginarlo. E non m’importava. L’unica cosa su cui potevo quasi contare era che Larry Douglas mi avrebbe dato delle grane.

Quel sospetto cominciò ben presto a trasformarsi in angoscia. Ma era già un tantino troppo tardi per simili preoccupazioni.

Il Twentieth Century Limited era atteso in stazione per le 18 precise. M’ero lasciato un buon margine di tempo per arrivare là in orario. Ma rischiai invece di far tardi, perché mentre guidavo per Randolph Street una sirena ululò alle mie spalle. Accostai al marciapiede, e in un gran stridore di freni sei macchine bloccarono la strada proprio davanti alla mia. Il cuore mi balzò in gola.

Non era me che volevano. O meglio, non volevano nessuno. Stavano semplicemente facendo il loro dovere quotidiano verso l’aristocrazia del denaro e del potere, nella fattispecie una limousine lunga come un campo da tennis con rifiniture in argento. Arabi, ovviamente. Arabi grossi. Per un momento pensai che si trattasse del vecchio Mekhtab ibn Bawzi in persona, benché da tempo fosse difficile vederlo in pubblico. Ma non c’ero andato lontano: era il suo primogenito, Faisal ibn Mekhtab. Faisal era facile da riconoscersi, se non altro per il rubino grosso come un uovo che portava appeso al collo e i sei gorilla che gli facevano cerchio attorno. Neppure la polizia cittadina osava mettersi fra lui e le sue guardie del corpo. Gli uomini in uniforme erano lì soltanto per tenere noi semplici mortali alla larga mentre Faisal, nel suo lungo abito bianco completo di fez, percorreva il tappeto rosso fino all’ingresso del nuovo albergo della A P. Era l’inaugurazione ufficiale. Comprensibile, visto che possedeva l’intera catena di alberghi e ristoranti. I radiocronisti in attesa protesero i loro microfoni verso le auguste labbra; lampeggiarono i flash; l’orchestra cominciò a eseguire una miscellanea di allegre canzoni, e brandendo un paio di forbici d’oro Faisal recise il nastro scarlatto davanti all’ingresso.

Fu interessante, più o meno, ma ci vollero venti minuti buoni prima che l’arabo tornasse alla Cadillac. Poi l’intera processione evaporò come s’era formata. Così trovai un posto per parcheggiare ed entrai in stazione cinque minuti dopo le sei, coi pensieri ancor pieni di arabi, di perfide agenti femmine dell’FBI e di Larry Douglas, e ben poco spazio per la mia beneamata, Greta. Non andavo spesso a prenderla al treno quando rientrava da New York, ma cercavo di farlo se solo mi era possibile. Specialmente in una domenica come quella, calda e serena, per poi portarla a fare quattro passi sul lungolago o magari allo zoo. Naturalmente il viaggio poteva non essere stato di tutto riposo per una stewardess, e se era stata tenuta in piedi tutta la notte da passeggeri noiosi o da bambini col mal di treno l’avrei subito accompagnata a casa sua.

Come mi sembrava delizioso, adesso, quel tran tran quotidiano! Avevo avuto tutto quello che desideravo e non me n’ero mai accorto.

Nell’immenso andito della stazione gli inservienti erano indaffarati coi bagagli dei passeggeri, in arrivo o in partenza. È sempre eccitante assistere al traffico nella Union Station, pensando che da lì potreste andare in tutto il mondo… in tutta l’America, almeno. C’erano treni appena giunti da Los Angeles, Salt Lake City, New Orleans e Washington D.C. e partenze per Minneapolis, Detroit e Houston. C’erano vocianti facchini dal berretto rosso con i passeggeri affardellati che trottavano dietro i loro carretti, e coppie in luna di miele che scambiavano baci e abbracci coi loro parenti, e famiglie reduci dalle vacanze con le loro borse piene di costumi da bagno, conchiglie, buffi souvenirs, e abiti e cappelli dai colori vivaci. A parte qualche occasionale corsa in treno con Greta, e viaggi d’affari a Pittsburgh o a Milwaukee, io non mi muovevo spesso. Forse era per quello che la Union Station aveva per me un odore esotico. E un’atmosfera — non so dirlo meglio — così organizzata. Potevate regolare il vostro orologio sui treni: partivano allo scattare del secondo, si arrestavano alla banchina come fossero sincronizzati alle lancette dei grandi orologi scaglionati ovunque.

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