Ma il contrattempo non era finito lì.
Con l’aiuto di persone come Jackie e Slavi Rostropovich — e naturalmente di Dom — m’ero introdotta nell’ambiente di Washington e conoscevo centinaia di personaggi, personalmente o di vista. Così sapevo che quel pubblico era quello che chiamano «di società», il che alla capitale significava fitto di diplomatici, gente del Pentagono, senatori e amministratori della cosa pubblica. Perfino la Presidentessa Nancy Reagan era presente nel suo palco, seduta a fianco del First Gentleman come sempre urbano e compassato. Quel genere di pubblico aveva problemi speciali. E il peggiore di tutti era che, se all’improvviso nel mondo qualcosa andava storto, metà di loro ne sarebbero stati informati praticamente nello stesso istante.
E qualcuno, adesso, li stava informando.
A metà dell’ andante alzai gli occhi e vidi poltroncine vuote in tutta la platea. Quando conclusi il terzo movimento con il bellissimo e complesso crescendo gli applausi furono scarsi. Non scarsi d’entusiasmo, questo era almeno chiaro. Scarsi di numero. Slavi mi guardò. Io lo guardai di rimando. Entrambi ci stringemmo nelle spalle con un sospiro rassegnato.
Nulla avrebbe potuto impedirci di rivolgere un bell’inchino alla platea. Poi ci ritirammo dietro le quinte e per mutuo accordo non ci ripresentammo alla ribalta, per dare al pubblico la possibilità di filarsela… come molti di loro erano ansiosi di fare.
E come la curiosità stava rendendo anche noi, dietro il sipario, ansiosi di fare.
Fu più difficile per Slavi che per me. Io ero libera per il resto della serata, e lieta di esserlo, mentre lui avrebbe dovuto tornare sul palco dopo l’intermezzo per la seconda parte del programma. Si trattava di Mahler, e ambedue pensavamo che non ci sarebbe stata molta gente in sala per assistere all’interminabile Prima Sinfonia.
Quando scoprimmo cosa stava succedendo, quella divenne una certezza.
La prima a dircelo fu la mia guardarobiera, Amy. Amy non si occupava del mio guardaroba, in realtà, anche se l’avrebbe fatto con il massimo entusiasmo qualora glielo avessi permesso. Il suo compito era prendersi cura di me. Teneva d’occhio il Guarnerius quando lo mettevo giù per un momento, si assicurava che il mio abito non avesse bisogno di un’improvviso ritocco con lo smacchiatore o il ferro da stiro, controllava quello che avrei dovuto mettere dopo il concerto, teneva pronte per me scorte di rossetti, assorbenti e ciglia finte. Faceva tutte queste piccole cose e inoltre una grossa: metteva strati di bende sugli occhi di mio marito quando ero fuori da qualche parte con Dom.
Si premurava anche di dirmi ciò che secondo lei dovevo sapere, comprese cose che non avrei voluto sapere. Specialmente cose che non avrei voluto sapere.
Di tutte le espressioni stupefatte, ansiose o preoccupate che c’erano dietro le quinte quella sera, la sua era la più sconvolta. Si fece largo fra il personale e i musicisti che mormoravano innervositi, e ci raggiunse. — Nyla! — gemette — ad Albuquerque sono diventati pazzi!
Ad Albuquerque, come sapevo benissimo, c’era la Base di Sandia. E Dominic era laggiù. D’improvviso, come se questo accadesse a un’altra, m’accorsi che mi si piegavano le ginocchia. Slavi mi sostenne per un braccio. Amy prese il violino e mi afferrò l’altro braccio, in quell’ordine.
— E Dom? — gorgogliai.
— Oh, Nyla… — Amy aveva le lacrime agli occhi. — Lui è il peggiore di tutti!
Un uomo di nome Dominic DeSota, avanzando fra le canne intorno a un vecchio bacino idrico in secca, si asciugò il sudore dalla fronte e alzò gli occhi da quel che stava facendo. A sud ovest, in direzione del luogo dove un tempo c’era stata Chicago, gli parve di vedere il crepuscolo illuminarsi di riflessi giallastri. Non era un’allucinazione. Le nuvole avevano assunto vaghi lucori come se sotto di esse ardessero molti fuochi lontani. Si raddrizzò e socchiuse gli occhi. Cos’erano quelle luci all’orizzonte? Sembravano procedere in file separate, e le luci bianche venivano verso di lui, mentre quelle rosse si allontanavano. Era quasi come se ci fossero ancora delle automobili! Ma un attimo dopo scomparvero del tutto, e lui fu di nuovo solo nell’afa del tramonto. Con un grugnito andò a svuotare l’ultima trappola di fil di ferro, tesa fra i cespugli, dove il gatto persiano che un tempo era appartenuto a qualcuno soffiava e rizzava il pelo. Non era più il morbido e grassoccio felino che una volta aveva fatto le fusa in un salotto, ma DeSota fu ugualmente lieto di averlo incontrato lì. Era la sua cena.
23 Agosto 1983
Ore 10,20 della sera — Maggiore Desota, Dominic P.
Fu soltanto un puro caso che il primo prigioniero da noi catturato fosse me stesso.
Avrei dovuto imbattermi in lui prima o poi, naturalmente. Sapevamo che il mio doppio era lì. Forse lui (quel «lui» che era me) mi aveva fatto un favore, perché una delle ragioni per cui avevo avuto il comando del primo scaglione d’assalto stava nel fatto che sapevamo che il senatore Dominic DeSota era sul luogo. (Senatore! Com’era potuto accadere? Com’ero riuscito ad arrivare tanto in alto nella sua linea temporale, mentre nella mia non ero altro che un qualsiasi ufficiale sperduto nei ranghi anonimi delle forze armate? Comunque, la posizione raggiunta da questo DeSota stava contribuendo a elevare la mia…)
— Sono pronti, signore — disse la sergente Sambok.
— Benissimo — le risposi, e la seguii su per le scale fino all’ufficio del capo scienziato, o come lo chiamavano lì. Non avevo tempo da perdere preoccupandomi dei diversi titoli o gradi, grammaticalmente insoliti, della gente con cui avremmo avuto a che fare: il «me stesso» che mi aveva fissato pensosamente, i «noi» che avevamo trovato lì. E non avevo tempo per meravigliarmi di cose che qualche ora addietro mi avrebbero meravigliato molto, vale a dire quelle che erano pur sempre coincidenze curiose fra la vita di questo Dom DeSota e la mia. Le nostre esistenze erano state diverse in un’enorme quantità di particolari. Ciò malgrado entrambi eravamo stati coinvolti in situazioni parallele… e ovviamente non solo «entrambi» noi, visto che c’erano tutti gli altri Dominic DeSota nelle innumerevoli altre linee temporali. I consiglieri tecnici non s’erano sprecati a illustrare particolari di quel genere. Ne ero a conoscenza perché li avevo domandati espressamente. Tutto ciò che avevano in programma di rivelare, a parte una versione per i profani dei loro mumble-mumble matematici, era che noi Dominic DeSota avevamo geni e cromosomi in comune e un’infanzia in comune, su fino al punto in cui le nostre vite s’erano separate, dovunque quel punto fosse. Avevamo visto gli stessi film, letto gli stessi libri, e la nostra personalità s’era dunque sviluppata secondo parametri almeno paralleli.
— Da questa parte, signore — disse la sergente. Oltrepassai la porta che la ragazza mi aveva aperto ed entrai nell’ufficio del direttore della Casa dei Gatti, come quella gente aveva umoristicamente chiamato il loro progetto sugli universi paralleli.
Il sottotenente del Corpo Segnalatori disse: — Sarà in onda fra trenta secondi, maggiore.
— Bene — risposi, e sedetti alla scrivania. Era lucida come il vetro… il capo scienziato doveva essere il classico sussiegoso scaldaseggiole di cui pullulano gli uffici direzionali, senza dubbio. Sul piano c’era soltanto il microfono del Corpo Segnalatori, coi fili che lo collegavano alla trasmittente manovrata dal sottotenente. Tentai i cassetti. Erano chiusi, ma aprirli sarebbe stata questione di un minuto.
— Si rompa una gamba, signore — mi augurò la sergente Sambok, ghignando sotto il suo trucco mimetico, e fui in onda.
— Signore e signori — dissi nel microfono, — qui parla Dominic DeSota. Circostanze di carattere urgente hanno resa necessaria un’azione precauzionale sulle installazioni della Base di Sandia e dintorni. Non c’è niente di cui dobbiate aver timore. Entro un’ora diffonderemo una trasmissione televisiva dalla stazione locale. Tutte le reti private sono invitate a diffonderla in ripresa diretta, e per allora i motivi di questa azione verranno pienamente chiariti.
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